sabato 4 novembre 2017
Arriva in Italia la ventunenne talentuosa cantante e trombettista spagnola cresciuta ascoltando Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan e Louis Armstrong: «I giovani non ascoltino solo il rap»
Le emozioni jazz della magica Andrea Motis
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Qualcuno la paragona a Norah Jones, altri addirittura a Chet Baker: sono paradossi, però Andrea Motis, filiforme e avvenente trombettista-cantante di Barcellona, ventidue anni e mezzo, sa come farsi notare dal punto di vista artistico. Il suo album di debutto per la storica etichetta Impulse!, Emotional dance, presenta infatti un jazz non solo raffinato, ma anche sfaccettato come pochi: dato che la Motis (accento sulla “i”) oltre che alternarsi fra tromba e canto come faceva proprio Chet si confronta tanto con standard di Horace Silver o Cole Porter quanto con proprie composizioni, dentro un mondo jazzistico di matrice ispanica (il suo mentore Joan Chamorro è coleader dell’ampia band, numerose le riletture di brani latini o brasiliani) che dimostra quanto, a cent’anni dalla nascita del termine “jazz”, quel linguaggio sia giunto oltre ogni frontiera. Anche perché poi Andrea Motis (in concerto stasera a Milano alla Triennale per il festival JazzMi, domani a Bologna, a Palermo il 7, a Catania l’8 e a Roma il 4 dicembre) fa jazz sin da bambina. La Motis è entrata infatti nella Sant Andreu Jazz Band a dieci anni e ha debuttato su disco a quindici, rileggendo standard per il mercato spagnolo.

Quando ha scoperto esattamente la musica jazz?

«Tramite i miei genitori, quasi subito. Poi a scuola di musica a dieci anni mi innamorai del dixieland, e Chamorro da lì via via mi ha portato a tutte le ere del jazz. Ho studiato anche sassofono, sempre prima dell’adolescenza e di pensare di fare la musicista».

Trombettista, per la precisione: con quali miti?

«Chet Baker, ovviamente. Ma anche Freddie Hubbard, anzi se dovessi scegliere un solo disco di tromba jazz da consigliare sicuramente punterei sul periodo hard-bop di Hubbard. Ma proprio perché suonavo il sax all’inizio, adoro anche l’arte di Gerry Mulligan».

Che cosa significa a vent’anni e spiccioli venire pa- ragonata nel mondo a un’icona come Baker?

«È difficile sentirsi all’altezza, anche se come complimento è bellissimo… Certo io ho guardato al suo modo di suonare e di aderire allo spartito in modo originale: ma penso che ogni paragone sia perdente, ognuno è se stesso. Anzi, solo quand’è se stesso può produrre jazz significativo per altri».

Per quanto riguarda il canto, a chi guardava?

«Sarah Vaughan, soprattutto. E poi Billie Holiday. Però ho seguito anche le lezioni più moderne di Amy Winehouse o di Esperanza Spalding».

Non del tutto jazz, le ultime due: ma anche Norah Jones è fra jazz e pop, e anche alla Jones lei è paragonata. Ecco, oggi è un bene che certi personaggi sfiorino il jazz portandogli pubblico o è forte il rischio che il linguaggio così si banalizzi?

«Io credo sia bello che i confini si sovrappongano: la Jones mi piace, è un altro complimento il paragone con lei. Che sì, può portare pubblico al jazz vero. L’importante è che si sappia che il jazz vero è altro, non è la musica che fa Norah Jones».

Dov’è il vero canto jazz per Andrea Motis? «È nei dischi della Holiday, di Ella Fitzgerald, di Louis Armstrong. Noi giovani dobbiamo ascoltarli, trascrivere gli assoli, e poi facendo un mucchio di pratica arrivare a tentare un nostro stile. Vale per la voce ma anche per la tromba, ovvio: improvvisare significa conoscere, studiare, esercitarsi. Solo dopo puoi osare tu dei viaggi diversi sulle partiture».

Per lei conta di più la tromba o la voce?

«Sono due strumenti entrambi. Per come io concepisco la musica la voce è accompagnamento più che sfoggio virtuosistico, mi permette di mettere testi alle melodie e di esprimermi in modo più completo».

Come definirebbe il jazz spagnolo?

«Per certi versi, ancora da scoprire. Non c’è molta tradizione di ascolto jazz, in Spagna, però tutti i linguaggi sono sviluppati. E ci sono musicisti importanti e giovani come i sassofonisti Santi De La Rubia, Enrique Oliver, Ernesto Aurignac».

Ma perché una ventenne incide standard vecchissimi?

«Perché sono fonte di conoscenza. È il discorso che le facevo prima, senza passato non arrivi al nuovo».

Non si sente mai lontana dai suoi coetanei?

«Dipende: ne esistono diversi che seguono il jazz, non è tutto rap. Penso che un giovane debba essere motivato e appassionato, in musica, non seguire l’onda. Se insegnassi musica nelle scuole farei ascoltare Sidney Bechet, Bobby Hackett (trombettista-chitarrista con Glenn Miller e Benny Goodman, nda), Chet e Armstrong, dixieland e Art Blakey».

Cosa significa la parola “jazz” per lei nel 2017?

«Qualcosa che dà di più di molti altri linguaggi musicali: è un mix di storia e ispirazione e soprattutto, per me, è magia».

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