Il flusso dei talenti si è invertito, ora i cervelli lasciano gli Usa
di Luca Miele
Gli ecosistemi della ricerca sono in fibrillazione, nel mondo è un atto una ridistribuzione delle capacità intellettuali. Una competizione tra Cina e Stati Uniti
C’è un aspetto poco raccontato della polarizzazione sempre più spinta in atto a livello mondiale: la guerra delle intelligenze. Il sapere, e il sapere scientifico in particolare, sta diventando la posta in gioco della competizione globale. Alla base c’è la consapevolezza che il progresso accademico e tecnologico – che vive di ritmi sempre più accelerati e cicli di innovazione sempre più ravvicinati – sagomerà il nostro futuro. Quello che oggi sembra consolidato già domani potrebbe franare. Le certezze si sfarinano, le conquiste vengono incalzate e superate. Basti pensare alla forza con la quale l’Intelligenza artificiale travolge già oggi i nostri assetti, cognitivi prima ancora che economici o sistemici. Una cosa è certa: chi deterrà il primato delle conoscenze ridisegnerà anche la mappa del potere e dell’influenza globali. Ebbene un movimento tellurico sta investendo gli «ecosistemi della ricerca», sovvertendo il flusso dei talenti. Flusso che ha seguito fondamentalmente una direzione: dal mondo verso gli Stati Uniti. Oggi questa rotta rischia di interrompersi, di spezzarsi, di viaggiare lungo direzioni diverse, portando a una ridistribuzione delle capacità intellettuali globali. Due, neanche a dirlo, sono i principali vettori di questo «rimescolamento»: gli Usa e la Cina. Donald Trump, nel nome del «make America great again», sta innalzando barriere sempre più irte e difficili da scavalcare all’immigrazione qualificata. Colpendo, in particolare, i talenti cinesi e indiani: oggi oltre il 60% dei nuovi dottorati di ricerca in informatica e ingegneria negli Usa è assegnato a persone nate all’estero. Come ha scritto Time, quello dell’America sembra configurarsi come «un ritiro dalla scena mondiale.
Trump ha imposto tariffe doganali di vasta portata in gran parte del mondo, ha attuato un programma di espulsioni di massa e ha introdotto restrizioni all'immigrazione legale». Il furore trumpiano non ha risparmiato i «cervelli», anzi. L’ultima spallata è arrivata con la decisione di imporre una tassa di 100mila dollari (60 volte il costo precedente) sulle nuove domande di visto H-1B. I principali beneficiari di questa tipologia di permesso sono oggi i «talenti» indiani (il 71% dei visti approvati nel 2024) e i cinesi (11,7%). La mossa dell’Amministrazione Trump «rappresenta – ha scritto il sito di analisi Asia Times – più di una semplice politica sull’immigrazione: è un errore di calcolo strategico che rischia di accelerare il declino degli Stati Uniti nella competizione globale. Finendo per danneggiare paradossalmente proprio l’ecosistema dell’innovazione che ha reso l'America attraente per imprenditori e ingegneri asiatici». Se l’America si chiude, la Cina si apre. Se Washington erige barriere, Pechino vuole abbatterle. Il gigante asiatico vede nello sgretolarsi del soft power a stelle e strisce una opportunità. Confezionando il visto K – che mira ad attrarre giovani professionisti nei settori-chiave, dalla scienza alla tecnologia, dalla ingegneria alla matematica – la Cina vuole capitalizzare il «ritiro» del suo rivale, proporsi come polo di attrazione dei talenti, assorbire il «reflusso» delle intelligenze. Si tratta di un’operazione destinata al successo? Difficile dirlo. Quello che è certo che assisteremo a una «politicizzazione» sempre più pervasiva del sapere. Così come sarà sempre più stretto il nodo tra conoscenza e complessi statali, industriali, economici. Il rischio è che si generino nuove, drammatiche, insuperabili faglie di esclusione.
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