giovedì 2 aprile 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
Se la conclusione di un accordo internazionale invita generalmente a rivolgere l’attenzione ai suoi contenuti ed effetti, la Convenzione in materia fiscale tra l’Italia e la Santa Sede chiede anzitutto di essere letta nella sua specifica finalità: pur orientata a rispondere ad esigenze di attualità, è parimenti voluta per dare una rinnovata continuità a relazioni realizzate nel solco della Conciliazione sul piano politico e dei Patti Lateranensi nella dimensione giuridica. È in quel quadro, infatti, che la Convenzione si colloca e andrà interpretata e applicata, come dimostrano i contenuti del suo Preambolo che,  prima di riferirsi al Trattato Lateranense – per altro costante rinvio nelle successive norme dispositive – richiamano la Costituzione italiana in cui quel Trattato trova speciale considerazione.Un nuovo strumento, dunque, ad un tempo normativo e di collaborazione che potrà rappresentare un essenziale riferimento per la vita dei due Contraenti nel loro reciproco e quotidiano rapportarsi per concorrere, insieme e distintamente, ad un’esigenza che dal piano mondiale si va ormai imponendo nella vita dei soggetti di diritto internazionale. Si tratta di quella «trasparenza nel campo delle relazioni finanziarie » (Preambolo) di cui è conseguenza da un lato l’elaborazione e l’applicazione di regole uniformi, dall’altro quella trasparenza che deve riflettersi nei comportamenti anche in campo finanziario. Un aspetto quest’ultimo che è squisitamente di ordine etico e che non prescinde da presupposti morali, come più volte ha sottolineato papa Francesco con richiami e indicatori anche pratici che possono facilmente trovare un’applicazione erga omnes. Ma perché una Convenzione e quali le ragioni che ne hanno motivato la negoziazione e la sottoscrizione? Spiccano le ragioni essenziali di qualsiasi testo pattizio chiamato a cercare «soluzioni condivise in materie di interesse comune» (Preambolo) e a garantire quella leale cooperazione internazionale nel contesto della trasparenza finanziaria, a beneficio di persone e istituzioni, della stabilità e della concordia sociale. Un obiettivo ritenuto ormai imprescindibile e che, quando le vicende riguardano le relazioni tra sovranità diverse, impone il ricorso alla dimensione internazionale e al suo diritto, come dimostra appunto la Convenzione. Nel caso specifico, poi, che interessa le relazioni tra l’Italia e la Santa Sede, a rafforzare la necessità del nuovo strumento spicca la condizione geografica e la funzione politica dello Stato della Città del Vaticano, la cui peculiarità di enclave rispetto al territorio italiano non può escludere il suo compito di rendere visibile la piena indipendenza della Santa Sede e l’esercizio della sua sovranità. In tale prospettiva si colloca un primo elemento sostanziale: la continuità nel riconoscimento della funzione, e quindi delle attività, degli Enti centrali della Chiesa cattolica che restano esclusi dal regime della Convenzione a motivo delle loro attività istituzionali e della funzione sovrana. Per essi, infatti, «restano ferme le disposizioni stabilite dall’articolo 11 del Trattato del Laterano» (art. 8). Analogamente la Convenzione richiama un obbligo internazionale che la rende inapplicabile riguardo «agli agenti diplomatici e alle rappresentanze diplomatiche » (art. 9), e questo in piena coerenza con l’art.12 del Trattato Lateranense che prevede le garanzie del diritto internazionale generale sia per i diplomatici accreditati presso la Santa Sede che per i diplomatici pontifici.  Le scelte operate con la Convenzione  – ed ecco un’altra delle ragioni sostanziali – sono orientate a garantire una reale e legittima convergenza tra le parti, permettendo in primo luogo di porre fine a residui di critiche per la mancata trasparenza. La Santa Sede, infatti, a partire dal pontificato di Benedetto XVI ha dato prova di procedere nella sanzione degli illeciti e verso la trasparenza del suo 'sistema' economico-finanziario con una legislazione sempre più specifica e anche con precisi adempimenti multi-laterali: questo per permettere, dall’interno, di verificare condotte antigiuridiche o comunque lesive della trasparenza, anche nei confronti di terzi (nel caso, l’Italia). Analogamente la Convenzione è una risposta in termini di legalità a rovinosi procedimenti, anche mediatici, sorretti da comportamenti individuali lontani da presupposti di ordine etico e morale. I contenuti dell’art. 2 della Convenzione non sono, dunque, una modalità per rifuggire dalle regole o per determinare situazioni a vantaggio di persone fisiche e giuridiche, ma piuttosto una corretta interpretazione di funzioni e di attività che alcuni soggetti svolgono per la Santa Sede, partecipando alle «esigenze della sua missione nel mondo» (Trattato Lateranense,  art. 2) o coadiuvandone l’azione (Ibid., art. 10). Missione e azione che perseguono un fine specifico, certo diverso da quello degli altri protagonisti delle relazioni internazionali, ma da sempre in legittima cooperazione con essi. La Convenzione guardando all’oggi, pone attenzione ad istituzioni di carattere religioso di cui non può essere dimenticata la presenza nella realtà italiana, nel tessuto sociale del Paese, come pure nel più ampio orizzonte della famiglia delle Nazioni. Andando oltre i dispositivi e le regole, l’occasione consente di ricordare che la dimensione religiosa viene effettivamente – e meglio si direbbe qualitativamente – riconosciuta come fondamentale per il vivere armonioso di una società quando essa è accolta non solo nella sua dimensione storica e culturale o nel suo legittimo dettato dottrinale, ma anzitutto quale vissuto di persone e comunità in grado di orientare eticamente quel 'senso comune' e quel 'bene comune' che della trasparenza finanziaria sono oltremodo ispiratori e debitori. È questo un approccio che dà senso alla previsione della Convenzione che stabilisce la peculiarità di istituzioni ecclesiali come gli «Istituti di vita consacrata, [le] Società di vita apostolica ed altri enti con personalità giuridica canonica o civile vaticana (art. 2.1.b)», quasi a volerli considerare convinti protagonisti nella vita del Paese, nella politica e nelle istituzioni, pronti a fornire il loro leale contributo all’opera di costruzione e consolidamento della realtà e dell’immagine dell’Italia. Tale apporto lo manifesta la loro azione sussidiaria, ma a volte sostitutiva, svolta per il rispetto della dignità della persona che è, ad un tempo, criterio di comportamento e obiettivo politico. Un’azione che esprime concretamente il riferimento ai valori propri della visione cristiana che, però, sanno coniugarsi con la dimensione del governare, con l’agire nei differenti ambiti della società, dalla famiglia alle associazioni di volontariato, dal mondo del lavoro e dell’economia all’educazione, fino alle prospettive della cooperazione internazionale. Nella Convenzione, dunque, è dato di cogliere il coerente affermarsi di quella 'sana collaborazione' tra le parti che – come indica il Preambolo – trova sostegno nell’insegnamento del Concilio Vaticano II e nella Costituzione italiana. Un modo per favorire il passaggio dal solo neminem laedere a quella condizione dell’uniquique suum tribuere che secondo una corretta concezione della legalità porta all’effettiva giustizia. Un traguardo essenziale per trasformare la semplice ammissione dell’esistenza di fenomeni che possono contraddire, violare o eludere la trasparenza in un coerente principio dell’ordine giuridico, orientatore di comportamenti e scelte, di strutture e di attività istituzionali. In questo quadro si colloca l’intesa tra le parti «sull’opportunità di assicurare la più ampia trasparenza anche attraverso lo scambio di informazioni ai fini fiscali nell’ambito della cooperazione amministrativa» (Preambolo).  Analogamente ad altri accordi fiscali di recente conclusi dall’Italia, lo scambio di informazioni è inquadrato dalla  Convenzione nella casistica delle «informazioni verosimilmente rilevanti per applicare le disposizioni della presente Convenzione oppure per l’amministrazione o l’applicazione del diritto interno relativo alle imposte di qualsiasi natura o denominazione riscosse per conto delle parti contraenti, delle loro suddivisioni politiche o enti locali nella misura in cui l’imposizione prevista non sia contraria alla Convenzione» (art. 1.1.). Si tratta di un trasferimento dal diritto internazionale multilaterale – ne sono fonte, anche se non esclusiva, diversi articoli del modello di Convenzione relativa alla tassazione sul reddito e sul capitale, adottato dall’Ocse nel 2003 – che configura lo scambio di informazioni come un principio cogente e non come semplice norma dispositiva. Lo dimostra l’articolazione nei diversi passaggi e considerazioni contenuti nella Convenzione che ne sostengono la natura di obbligo aggravato; obbligo che è, evidentemente, allargato e estendibile per la sua configurazione amministrativa. Tutti aspetti che pongono realmente fine ad ogni possibile volontà di vanificare non solo gli sforzi di trasparenza, ma di proteggere operazioni o condotte antigiuridiche e che comunque possano minare la credibilità delle parti rispetto agli impegni assunti con la Convenzione. Funzionale, invece, alla regolarizzazione delle situazioni pregresse appare la retroattività al 1º gennaio 2009 delle richieste di informazioni che le parti possono avanzare o scambiarsi (art. 1.9). Nel caso specifico, considerando che la Convenzione fiscale è sottoposta al regime di applicazione dei trattati che ne prevede l’effetto dal momento della loro entrata in vigore, è evidente che la retroattività rientri in quella 'diversa intenzione' che la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, all’art. 28, riserva alle parti.Sarà il successivo processo di ratifica a dare pieno vigore alla  Convenzione con una procedura che, se per l’Italia resta necessariamente legata al concorso di differenti poteri ed istituzioni, nel caso della Santa Sede riposa nella esclusiva competenza del Sommo Pontefice a cui spetta il cosiddetto treaty making power.  In attesa della ratifica, tempo in cui la richiamata Convenzione di Vienna impone alle parti di «astenersi dal compiere atti suscettibili di privare [il] trattato del suo oggetto e del suo scopo» (art. 18), le rispettive autorità competenti potranno già predisporre la normativa necessaria per conformarsi e dare applicazione ai termini della Convenzione e parimenti elaborare i provvedimenti amministrativi e attuativi necessari per la sua applicazione (art. 10).  Questo il quadro di norme e valori in cui si colloca la Convenzione fiscale che, riconoscendo la reciprocità di apporti tra l’Italia e la Santa Sede, nella distinzione di funzioni e competenze, garantisce quella libertà di azione che della Chiesa è propria e che appartengono alla missione della Santa Sede nel mondo. È un compito che, dispiegato in modi e tempi diversi, resta legato, sempre e in ogni luogo, all’obiettivo di sostenere la causa della persona umana. A dare ulteriore slancio e visibile indipendenza a questa missione potrà essere certamente il nuovo accordo, presupposto non solo di composizione di controversie, ma strumento volto a garantire l’effettiva vigenza di quel pacta sunt servanda chiamato a regolare le situazioni e la loro evoluzione, spesso repentina. Un atto del quale le parti contraenti, a conferma della sua indubbia validità, potranno fare non solo un ulteriore strumento regolatore dei tradizionali e consolidati 'rapporti di buon vicinato', ma anche la base per futuri impegni comuni. Così la Convenzione può essere considerata parte essenziale dell’ordinario scorrere delle contemporanee relazioni internazionali volte a favorire, mediante la trasparenza nel settore dei rapporti e delle transazioni finanziarie, quell’obiettivo di un rinnovato impegno per la legalità che consenta, realmente, quel «ritorno dell’economia e della finanza ad un’etica in favore dell’essere umano» (Papa Francesco, Evangelii gaudium, 58). * ordinario di diritto internazionale alla Pontificia Università Lateranense Consigliere dello Stato della Città del Vaticano
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: