venerdì 26 aprile 2024
A 30 anni dalle prime elezioni del dopo-apartheid, le speranze del Paese arcobaleno, tra corruzione e scandali, sono rimaste sulla carta, malgrado le grandi potenzialità e le risorse naturali
Lenasia, vicino a Johannesburg

Lenasia, vicino a Johannesburg - Reuters

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C’erano le casette costruite dal governo, a Philippi, esteso slum a mezzora d’auto da Città del Capo. Gli infissi tirati via, del tetto nemmeno a parlarne, scheletri nuovi eppure già distrutti e mai abitati. Erano le “case per i poveri”, in un contesto in cui la povertà era carne viva di ogni nucleo familiare. «Quando attui un simile intervento in un posto come Philippi in preda alla miseria devi tenere in conto che potrai scatenare una terribile guerra tra gli ultimi. Ed eccolo, il risultato – mi spiegava Livujo accompagnandomi tra i vicoli della baraccopoli -. Le case sono state vandalizzate quando erano quasi finite, la gente non voleva o poteva aspettare il suo turno per l’assegnazione. Così, per l’impazienza di entrarne in possesso prima di qualcun altro, hanno finito per danneggiarle e distruggerle». Tempo è passato, ma a Philippi, racconta ancora chi ci abita, poco o nulla è cambiato. E poco o nulla è cambiato a Khayelitsa, a Langa, a Soweto e nelle mille township urbane e rurali di un Paese, il Sudafrica, che, da prima economia del continente nero, domina da anni la graduatoria degli Stati con la maggiore disuguaglianza al mondo.

Proteste a Cape Flats, vicino a Città del Capo

Proteste a Cape Flats, vicino a Città del Capo - Reuters

Dov’è finito il sogno di Nelson Mandela? Cosa ne è stato dell’illusione della “raimbow nation”, la nazione arcobaleno in cui, sconfitto definitivamente l’apartheid, vivere insieme avrebbe dovuto significare anche avere finalmente le stesse opportunità, condividere gli stessi sogni? Oggi sono trent’anni esatti dalle prime elezioni libere sudafricane, quelle in cui “Madiba”, dopo quasi tre decenni di prigione, diventò presidente rifiutando la logica della vendetta e puntando alla riconciliazione con la minoranza bianca, a partire dalla nomina a suo vice di Frederik de Klerk. Da allora, l’African National Congress (Anc) non ha mai perso un’elezione e non perderà neppure quelle del prossimo 29 maggio, quando si tornerà a votare per il nuovo Parlamento. Eppure, la fine delle illusioni, lampante in tutti gli indicatori socio-economici, potrebbe determinare un fatto storico: il partito che fu di Mandela potrebbe scendere per la prima volta sotto il 50% dei consensi, costringendo il presidente uscente Cyryl Ramaphosa a formare una coalizione - magari con il predecessore Jacob Zuma, tornato in sella nonostante mille scandali - per continuare a governare. I n un Paese in cui l’età mediana dei 62 milioni di abitanti è di appena 27 anni, l’epopea della lotta contro la segregazione razziale su cui l’Anc ha da sempre costruito la sua narrazione politica fa sempre meno presa. Per chi è giovane, ma non vede un futuro, il mito del passato conta poco più di niente. La disoccupazione crescente e la mancanza di servizi di base, unità ai casi di corruzione delle élite, ha scavato un solco tra le masse di esclusi dal benessere e la ristretta cerchia di chi conta davvero, legata a doppio filo alle alte sfere del partito al potere. Il tasso di disoccupazione ufficiale del 32% è tra i peggiori al mondo e relega sotto la soglia di povertà 11 milioni di persone, pur in un Sudafrica che vede i distretti finanziari delle sue città sempre più in crescita.

Non solo l’”europea” Città del Capo, ma anche Johannesburg, Durban e Pretoria attirano i sudafricani delle aree rurali e anche decine di migliaia di migranti dai Paesi vicini, persone disposte ad accettare paghe da fame e condizioni di vita al limite e contro cui si scatenano sporadiche ma violente ondate xenofobe. Emergono gruppi di vigilanti anti-migranti, come quelli di Operation Dudula, che mettono gli stranieri nel mirino, ne chiedono il rimpatrio, istigano all’odio. Il Sudafrica che ha vinto il razzismo, insomma, vede esplodere nuove forme di razzismo, in un cortocircuito della Storia che affonda le sue radici nella disuguaglianza e nella povertà diffusa.

La reputazione dell'Anc è stata offuscata anche da una serie di inchieste, soprattutto nel periodo di Zuma, tra il 2009 e il 2018. La corruzione dilagante è costata miliardi di dollari, ma nemmeno indagini durate anni sono riuscite a sviscerare del tutto la complessità dei meccanismi con cui la casta dei potenti si è arricchita a scapito anche della diffusione dei servizi di base. Basti pensare al caso Eskom, l’azienda che gestisce l’energia elettrica al 95% dei sudafricani con alle spalle anni di perdite finanziarie, investimenti scadenti, gestione inadeguata e accuse di corruzione. Il risultato sono state le “interruzioni pianificate” di elettricità tra il 2022 e il 2023 che hanno provocato blackout di molte ore al giorno a livello nazionale, causando perdite alle imprese sudafricane e disservizi continui ai cittadini, oltre a incidere sulle casse statali. Il presidente Ramaphosa ha promesso a più riprese la riqualificazione delle infrastrutture e una maggiore produzione di energia legata alle fonti rinnovabili (e alle importazioni dalla Cina, da anni principale partner economico), ma gli analisti vedono ancora lontana la soluzione del problema.

Lo stesso Ramaphosa rivendica peraltro l’arresto, avvenuto due anni fa a Dubai, di due dei tre fratelli Gupta, il clan di origine indiana accusato di aver pagato per anni tangenti per influenzare le nomine ministeriali e di aver usato i suoi legami con l’ex presidente Zuma per aggiudicarsi contratti, beni statali, concessioni minerarie. Il “Guptagate” è stato in questi anni l’emblema di un Sudafrica post-apartheid che ha dimenticato le sue promesse di uguaglianza per sprofondare nella cleptocrazia. La mancanza di opportunità, l’aumento del consumo di alcool, l’emarginazione di ampie fasce sociali hanno favorito tassi di criminalità tra i più alti al mondo, con 47 omicidi ogni 100mila abitanti, un tasso sei volte maggiore rispetto a quello degli Stati Uniti. Anche rapine e stupri continuano ad avere numeri allarmanti (in media 120 casi di violenze sessuali al giorno), mentre un rapporto recente di Banca mondiale stima che la stessa insicurezza costi ogni anno al Sudafrica quasi il 10% del Pil.

Cenerentola del G20, il Sudafrica detiene il 35% delle riserve globali di oro, oltre ad essere il primo produttore mondiale di platino e manganese e ad avere riserve consistenti di uranio, rame, carbone, diamanti. Il settore minerario è composto da un insieme di imprese sia private sia statali ed è responsabile del 60% delle esportazioni del Paese, ma la fragilità di alcune infrastrutture chiave, dall’inefficienza ferroviaria al razionamento dell’energia, ha avuto solo nell’ultimo anno un impatto sui profitti del comparto da 5 miliardi di euro, secondo un rapporto di Pwc. Mandela aveva abbandonato presto l’intenzione di nazionalizzare le miniere, le banche e le “industrie monopoli-stiche”, per il timore di effetti negativi sull’economia e in nome di una transizione “morbida” del nuovo Sudafrica post-apartheid, ma la storia è andata in un’altra direzione e tuttora è il 10% dei sudafricani a detenere l’80% della ricchezza, con la razza ad essere il principale spartiacque del benessere.

Il Black economic empowerment, la politica di incentivi governativi inaugurata nel ’94 per facilitare una più ampia partecipazione dei neri nell’economia e nelle imprese e abbattere le disuguaglianze, ha finito, secondo i critici, con il beneficiare una ristretta élite di tycoon neri collegati all’African national congress, i cui figli si ritrovano la sera a ballare al Waterfront o a Green Point, quartieri di Città del Capo che poco avrebbero da invidiare al ricco Nord del mondo. I bianchi, circa il 7% della popolazione, continuano a detenere oltre il 72% delle terre acquisite nell’era dell’apartheid e sono la maggioranza nei quartieri ricchi come Sandton, a Johannesburg, mentre l’ambizioso obiettivo dell’Anc di ridistribuire almeno il 30% delle terre dei bianchi alla maggioranza nera non è mai stato raggiunto e resta un argomento più che divisivo.

Le ampie disuguaglianze sociali si riflettono in tutti gli aspetti della vita dei sudafricani, dall’istruzione alla sanità, fino alla coniazione della definizione di “apartheid verde”, per la distribuzione diseguale di quartieri ricchi di parchi pubblici e giardini curati lungo linee strettamente razziali e di reddito. Nessun altro partito sembra poter contendere all’Anc più del 20-25% dei voti alle prossime elezioni, ma certo è che la maggioranza dei sudafricani potrebbe per la prima volta voltare le spalle al partito di Madiba. Non c’è più traccia della “magia di Mandela”, quel misto di speranza e riconciliazione che trent’anni fa ha fatto ripartire il Sudafrica, ipnotizzato dall’aura del mito. La Gen Z sudafricana subisce ogni giorno la sua eredità tradita: servirà uno scatto vero, non altre promesse, per compiere finalmente un passo verso il futuro.

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