sabato 1 novembre 2014
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Indossano hiyab colorati e ampi vestiti, lunghi e larghi, affinché siano celate le forme del corpo. Gli sguardi, tratteggiati dal kajal, sono fieri ma spenti. Al loro fianco, vivaci come tutti i bambini, ci sono i loro figli, ma solo quelli che hanno meno di sei anni. Hanno poca voglia di parlare le detenute del carcere femminile di Herat eppure i loro gesti, la postura, le contrazioni del volto dicono tantissimo della loro storia e di quella della struttura in cui sono rinchiuse. Costruito nel 2009 grazie al sostegno economico dell’Unione europea e del Ministero della Difesa italiano, come recita il gigantesco cartello affisso sulla porta di ingresso, questo reparto del penitenziario è dotato di 270 posti letto. Anche se, come confessa la direttrice del carcere, Sima Paima, in alcuni momenti è arrivato ad accogliere fino a 500 afghane e pure qualche iraniana. Attualmente le recluse sono 164, i bambini invece 74. Le donne che hanno commesso un reato in Afghanistan possono infatti portare in cella con sé i loro piccoli ma solo fino al compimento del sesto anno dopodiché i minori vengono trasferiti, quando possibile, nella famiglia di origine della detenuta oppure in un centro ad hoc che lasceranno soltanto quando la madre avrà scontato la pena. Uno, tre, dieci anni e anche oltre. La direttrice del carcere di Herat, Sima Paima

La permanenza in carcere dipende ovviamente dal crimine commesso. C’è chi ha ucciso il marito «perché – racconta – stanca di subirne la violenza» ma c’è anche chi viene giudicata colpevole di reati che in Italia non sarebbero neanche considerati tali. È il caso di chi ha subito uno stupro, di chi si è innamorata dell’uomo sbagliato, di chi ha tentato la fuga da casa e di chi ha rifiutato il matrimonio imposto dalla famiglia. Per tutte loro il sistema giudiziario afghano prevede la reclusione e la riabilitazione. Un obiettivo, quello del reinserimento sociale, che per molte resta un miraggio. Soprattutto per quelle che arrivano dai villaggi più poveri dove il carcere è tutt’ora vissuto come un’onta indelebile. L'ingresso del carcere di Herat

Ad aiutare queste donne spesso sono le Ong e altre associazioni che le accolgono nei loro centri e le aiutano a trovare un impiego grazie anche a quanto imparato in cella. Nel carcere femminile di Herat tutte le detenute hanno infatti l’obbligo di studiare e lavorare. Imparano a leggere e scrivere il dari e il pashto, a parlare inglese, a fare i calcoli e ad usare il computer . E poi ci sono i mestieri, spesso trasmessi da detenute più anziane o da ex detenute che sono riuscite a riabilitarsi, per far sì che queste donne, spesso giovanissime, una volta fuori, possano contribuire al sostentamento dei loro figli. Alcuni degli oggetti confezionati dalle detenute

In tante imparano a cucire , altre realizzano prodotti e manufatti artigianali, alcune seguono lezioni di trucco mentre altre sognano di diventare commercianti e imprenditrici. «Siamo grati all’Italia per il sostegno ricevuto fino ad oggi – è il commento della direttrice del carcere – e speriamo di continuare a riceverne in futuro. Grazie ai militari e al Prt (Provincial Reconstruction Team) del Train Advise Assist Command West, il comando multinazionale a guida italiana attualmente su base brigata bersaglieri ‘Garibaldi’, abbiamo ottenuto mezzi e materiali per rendere questo luogo ancora più funzionale allo scopo. Da circa tre anni poi i militari ospitano, una volta al mese, all’interno del quartier generale di Camp Arena una mostra-mercato con tutti i prodotti realizzati dalle detenute. Il 50% del ricavato della vendita dei prodotti va alle loro famiglie. Una gran bella iniziativa che restituisce la giusta speranza a queste donne».Abitini confezionati dalle detenute

Tra le ultime richieste rivolte ai militari italiani c’è quella di finanziare un servizio di supporto psicologico alle detenute: «L’idea – spiega il tenente Ilaria Mattiacci, gender adviser e vice comandante di compagnia presso il 4° reggimento carri di Persano (Sa) – è quella di realizzare un percorso che possa facilitare il reinserimento sociale di queste donne restituendo loro fiducia e autostima. La condizione femminile ad Herat si sta evolvendo, cresce il numero delle afghane che lottano per il riconoscimento dei propri diritti e di pari passo sta aumentando anche il livello di scolarizzazione soprattutto tra le bambine. Tanto resta ancora da fare, è chiaro, dal canto nostro continueremo a mettere in campo tutte le iniziative possibili contro ogni forma di violenza e a sostegno delle pari opportunità». Un militare italiano con un bimbo afghano

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