sabato 19 luglio 2014
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Più in là di così i soldati dell’Israeli Defense Force non ci lasciano arrivare. Abbarbicati su una collinetta spiamo da lontano i carri armati con la stella di David che in fila disciplinata come enormi scarabei color ocra s’incamminano sulla pista che li porta dentro la Striscia di Gaza mentre nostre alle spalle ruggisce il fuoco di un’invisibile artiglieria. Una scena che abbiamo già veduto, identica in tutto e per tutto a quell’operazione Cast Lead del 2009, lo stesso ingorgo di carri Merkava, lo stesso orizzonte color sabbia, gli stessi sbuffi di fumo che s’impennano improvvisi fra le case di Beit Lahiya e Beit Hanum, dove si concentra l’offensiva di terra di Israele. Un’offensiva indispensabile, come fanno sapere a Tel Aviv, motivata da una delle più forti pulsioni dell’uomo: la paura. Perché è qui, tra Yav Mordechai, Zikim, Sufa, Sderot che la minaccia più temuta da Netanyahu ha preso forma. La minaccia dei tunnel sotterranei di Hamas, gallerie perfettamente ideate e costruite dagli ingegneri di Gaza, lunghe anche due chilometri che si spingono oltre il perimetro della Striscia e sbucano nel sud di Israele. «Per dieci anni – dice il geologo Yossi Langotsky, a lungo ignorato dai vertici militari e ora, a 80 anni suonati, ascoltatissimo consigliere – ho insistito sul pericolo di questi tunnel. Da lì potevano uscire commandos per fare stragi, per rapire cittadini, per organizzare attentati. È impressionante il numero e la qualità degli scavi fatti da Hamas: centinaia di tunnel scavati anche a 20 metri di profondità. Scoprirli e neutralizzarli tutti sarà un problema». Per questo è partita l’offensiva di terra, dopo che un commando di tredici palestinesi è stato intercettato a Sufa. «Se fossero riusciti a penetrare in profondità li avremmo perduti e ora il rischio di attentati o di rapimenti sarebbe altissimo», dicono le fonti dell’esercito. A dispetto dell’esiguo numero di vittime (due finora, un civile e un soldato), il timore del governo è quello di un attentato clamoroso, come quello del 2012, quando Hamas fece saltare in aria un autobus a Tel Aviv, infrangendo l’illusione dell’intangibilità delle frontiere interne di Israele. Esattamente ciò che ha promesso Mohammed Deif, lo stratega di Hamas a capo delle brigate Ezzedin al-Qassam, sconfitto nella guerra dei razzi dal sistema difensivo Iron Dome e bisognoso di un’affermazione clamorosa sul campo. Le operazioni di terra non hanno impedito ai generali della jihad di continuare il lancio di ordigni a lunga gittata. Nel pomeriggio ne sono giunti alcuni sopra i quartieri residenziali di Tel Aviv, e anche a Gerusalemme le batterie Iron Dome erano pronte ad intercettare i razzi provenienti da Gaza. L’effetto non cambia: la paura e l’insicurezza sono il contrassegno del successo di Hamas, fatalmente sconfitta sul campo di battaglia, pericolosa e insidiosissima su quello psicologico.Ieri era giornata di preghiera e venerdì della collera per i palestinesi della Cisgiordania. Ma gli esigui tafferugli fra la polizia e qualche giovane attorno alla Spianata delle Moschee (interdetta come d’uso ai minori di cinquant’anni) non davano il senso di chissà quale solidarietà nei confronti della Striscia. Fatah e Hamas sono lontanissime, Abu Mazen è raffigurato dalla tv di Gaza come un complice ambiguo di Netanyahu e dell’egiziano al-Sisi. «Stiamo aspettando che finisca tutto – mi dice l’arabo-israeliano Ibrahim, vecchia conoscenza e ragguardevole collezionista di libri che vive nella zona araba di Gerusalemme a un passo dalla porta di Damasco –, nell’attesa che ricominci di nuovo tra qualche mese o qualche anno». Le stesse parole che ha detto Yusuf, l’ebreo pacifista che gestisce un bar a Ben Yehuda, nel distretto degli affari. Un tetro fatalismo, la consapevolezza del riaffacciarsi di cose già vedute e mai risolte avvolge al calare della sera i cuori di ebrei e palestinesi, di progressisti e di conservatori, di moderati e di irriducibili. Inghiottiti come sono, come lo siamo tutti, da questa intollerabile follia.
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