venerdì 28 dicembre 2012
​Younis Masih, falegname 34enne, era stato condannato a morte in prima istanza. Ora l'uomo aspetta un nuovo giudizio che viene continuamente posticipato. L'ultima data fissata è il 17 gennaio. La sua è la più lunga detenzione con l'accusa di aver «offeso l'Islam» di Stefano Vecchia
Ciò che viene dissipato di Riccardo Redaelli
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La storia di Asia Bibi – cattolica, condannata alla pena capitale per le accuse di vicine di casa musulmane, da oltre tre anni in carcere e in snervante attesa del giudizio d’appello che è sottoposto non soltanto ai tempi e alle modalità della giustizia, ma anche a quelle dell’opportunità politica e della pressione dell’estremismo religioso – è diventata simbolo della difficile condizione delle minoranza cristiana in Pakistan. Sono tante, troppe le vittime della “legge antiblasfemia” nel Paese asiatico. Tra queste, un caso suscita particolare sdegno: quello di Younis Masih, che vanta il drammatico record della più lunga detenzione per blasfemia. Il cristiano è in carcere a oltre sette anni dall’arresto e a cinque e mezzo dalla sentenza che lo ha condannato a morte in prima istanza. L’anno che si chiude è stato particolarmente duro per il falegname 34enne, la cui prima udienza del processo d’appello è stata spostata da novembre al 17 dicembre per essere ulteriormente posticipata al 17 gennaio 2013. La sua vicenda era iniziata il 9 settembre 2005: il giovane aveva chiesto ai musulmani, che stavano assistendo a un concerto di musiche devozionali in una casa vicina, di rispettare con il silenzio il suo lutto per la recente morte di un nipote. Per questo era stato aggredito e con lui la sua famiglia e la piccola comunità cristiana locale. Il giorno dopo un imam lo aveva denunciato alla polizia secondo l’articolo 295C del Codice Penale che contempla l’accusa di blasfemia per «diffamazione del nome del Profeta». Il 30 maggio 2007, un tribunale di Lahore ha riconosciuto colpevole Younis Masih, condannandolo alla pena capitale. Da allora, la sua vita si è trascinata miseramente prima nel carcere di Kot Lakhpat a Lahore e poi in quello di Mianwali, assai più lontano da casa e dalla sua famiglia. Adottato come prigioniero di coscienza da Amnesty International, il cristiano – che già aveva accusato la polizia di averlo torturato per estorcergli una piena confessione dopo l’arresto – è stato aggredito almeno due volte da altri carcerati e maltrattato dai secondini.Anche il suo avvocato, Parvez Aslam Choudhry, più volte minacciato, è sfuggito a un tentativo di assassinio l’11 maggio 2006, in cui è morto un collega con lui sulla sua auto e un altro passeggero è rimasto ferito gravemente. Younis è anche stato il primo tra i molti accusati di blasfemia a partecipare al processo in videoconferenza, dati i rischi del suo trasferimento dal carcere al tribunale. Un procedimento, quello a suo carico, basato su testimonianze parziali, in cui diversi interventi sono state trascritti in modo non fedele. Un dibattimento tenutosi, infine, in un’atmosfera talmente tesa che il giudice ha dovuto ordinare alla polizia di garantire la sicurezza del legale di Younis, senza riuscire peraltro ad ottenerla.A suo sostegno sono intervenuti non solo gruppi di soccorso legale alle vittime della legge antiblasfemia e organizzazioni locali e internazionali per i diritti umani, ma anche la Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale cattolica e l’Alleanza di tutte e minoranze del Pakistan (Apma), co-fondata dall’ex ministro per le Minoranze, il cattolico Shahbaz Bhatti, assassinato nel marzo 2011.
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