giovedì 24 luglio 2014
Reportage dalla «linea blu» tra Israele e Libano convivendo con allarmi e razzi da fermare. (Angelo Picariello)
IL VIDEO Il presidente di Tiro: l'Occidente aiuti i cristiani (Daniela Volpecina)
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​Il richiamo del muezzin risuona a tarda sera nella Base di Shama, sede del comando del settore Ovest di Unifil. Il tramonto interrompe il digiuno del Ramadan, anche se per i sunniti fa fede il calar del sole nello splendido orizzonte del mare, mentre per gli sciiti, in maggioranza nel Sud del Libano, occorre che cessi anche l’ultimo rossore all’orizzonte. Ma le altre sere non sono state così tranquille. Per due volte di seguito si sono uditi distintamente i sibili dei katyusha e dopo qualche minuto sono scattate le rappresaglie dell’artiglieria israeliana indirizzate con l’ausilio di razzi illuminanti verso i siti di provenienza. In base è scattato per due volte il "rocket alarm", tutti i militari – anche i nostri del Battaglione brigata Ariete – si sono portati nei bunker per circa un’ora, anche il cappellano del contingente don Flavio Riva non si è sottratto. Ma ora sembra tornata la calma e in base, mentre chiudono anche il bar e gli uffici, l’unica porta aperta è quella della cappella "Regina Pacis", illuminata "h24", anche di notte. Qualche razzo è finito in mare nella zona delle boe contese di confine. L’ultimo episodio due giorni fa, nella notte fra domenica e lunedì, ma nell’altro settore, a Est: il razzo però non ha neppure raggiunto il confine e la replica israeliana non è scattata. Ben più preoccupanti erano stati due episodi consecutivi, nella zona costiera, una decina di giorni fa. I razzi sono partiti da una zona – nei pressi di Tiro, principale centro del sud del Libano – a Sud del campo palestinese di Rashidieh, a una quindicina di chilometri dal confine. A Kiryat Shmona e Metulla, e in tutta i centri dell’alta Galilea sono suonate le sirene, udite distintamente nella base "1-31" posta lungo la "Blue line" di confine, e anche al nostro comando elicotteristico di Italair sulle colline che guardano sul mare. La base di Italbatt, impegnata a valle, lungo la costa, ha raddoppiato il pattugliamento insieme alla Laf, l’esercito libanese, ed è un fatto che dopo l’arresto di due palestinesi provenienti proprio dal campo di Rashidieh, martedì della scorsa settimana, gli episodi siano cessati.
Sei per la precisione le violazioni che ha censito il comando della missione Unifil: sei lanci di missili e sei repliche israeliane. Il generale Paolo Serra ieri ha guidato l’ultimo Tripartite Meeting, nella base posta lungo il Confine, unico punto di attraversamento fra i due Stati, e oggi passa il testimone a un altro italiano alla guida di Unifil, il generale Luciano Portolano: prevista la presenza del ministro della Difesa Roberta Pinotti alla cerimonia che vedrà stasera la partecipazione di tutti e 37 i Paesi della missione. In questa "straordinaria" conferma l’esplicito riconoscimento del ruolo di intermediazione quasi insostituibile svolto dal nostro Paese fra due Stati che non si parlano, neanche in questi incontri mensili al confine, se non per il tramite del Force Commander, il capo della missione Onu. Ma questo non ha impedito di andare avanti nel lavoro di tracciamento della linea armistiziale di confine. Dei 570 blue pillar (i bidoni blu dell’Onu piantati su un pilone) previsti, per delimitare i 120 chilometri di "Blue line", Serra lascia 360 posizioni concordate, 300 sminate e 212 piloni giù montati. Più della metà del lavoro, con difficoltà che persistono nella zona est, verso il confine con la Siria, ma tutto sommato anche zone come la citta contesa di Gajar non fanno eccezione a questa situazione: se non è pace, non è nemmeno guerra. Israele non esiste, sulle cartine c’è scritto Sud Palestine, altrettanto in Israele si parla di Nord Galilea in riferimento al Sud del Libano, ma tutto sommato sono 8 anni che non si spara e ci sono ragazzi che ora vanno a scuola senza aver conosciuto la guerra.
I fragili equilibri politici in Libano reggono soprattutto grazie alla tenuta dell’esercito, frutto dell’investimento di tutte le componenti – dalle milizie sciite di Hezbollah alle vecchie falangi maronite – sulle Laf (Lebanese Armed Forces) e non è un caso che la carica di presidente della Repubblica (appannaggio dei cristiani maroniti, mentre la guida del Governo tocca ai sunniti e agli sciiti quella di speaker del Parlamento) ultimamente ci siano arrivati tutti ex capi dell’esercito. Ci aspira Michel Aoun (in passato anche lui capo delle Laf), ma sul suo nome non c’è intesa. Aoun, cristiano maronita, di recente aveva aperto alla coalizione filo sciita e filo-siriana cosiddetta dell’"8 marzo", che ha sopravanzato l’altra, più filo araba e filo occidentale del "14 marzo" di Saad Hariri, figlio – ora in esilio – del leader assassinato in un attentato, Rafik. Ma nessuna coalizione da sola basta a raggiungere i due terzi per eleggere il presidente. Ieri, nona fumata nera in Parlamento e ciò rischia di compromettere anche i fragili equilibri del governo di unità nazionale in cui la coalizione egemonizzata da Hezbollah ha trovato una precaria intesa con l’altra. Il candidato più forte, ancora coperto, potrebbe essere proprio l’attuale capo delle Laf, lo stimato Jean Kahwagi, ma se l’intesa cadesse su di lui si aprirebbe un altro problema per la successione alla guida dell’esercito. Con il quale l’Italia, fra l’altro, nel giugno scorso, ha stipulato un accordo di cooperazione – siglato dai ministri Mogherini e Pinotti – che potrà portare in un arco di tempo «dai 5 ai 15 anni», alla completa autosufficienza militare del Libano, anche sul peacekeeping.
Ma c’è un problema in più in questo Paese stretto fra due fuochi. Dalla Siria sono arrivati negli ultimi tre anni oltre 1 milione e 200mila profughi siriani, tanti per un Paese di circa 4 milioni di abitanti. Anche nel Sud, che ospita nei campi già da oltre 60 anni 50mila profughi palestinesi, ne sono arrivati altrettanti dalla Siria. E il 50 per cento dell’attività di "medical care" operata dai nostri militari è indirizzato proprio ai siriani. Preoccupa anche la carenza d’acqua, dopo un inverno fra i meno piovosi. Ma non li chiamiamo profughi, per noi sono "rifugiati temporanei", dice Abdul Mohsen al Husseini, presidente della Regione delle Municipalità di Tiro, autentica autorità in zona, come testimoniano le foto che lo ritraggono con tutti i capi militari italiani succedutisi nel tempo e anche con Ban Ki-Moon. Per tutti qui è "lo zio". Aderente al partito degli sciiti moderati di Hamal, 78 anni, lo "zio" è un vero e proprio custode del dialogo fra i diversi riti e saluta gli ospiti con un bacio sulla fronte, specie se cristiani. «Quello che sta accadendo contro i cristiani in Siria e Iraq, in terre in cui loro erano prima di noi, è inaccettabile e a papa Francesco diamo tutta la nostra solidarietà», ci dice. Qui a due passi c’è la terrazza di Cana, quella del miracolo delle nozze: «La fede cristiana ci è cara, il messaggio che vogliamo mandare è che qui in Libano cristiani e musulmani siamo fratelli. E abbiamo rispetto della vostra storia».
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