martedì 16 aprile 2013
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Una donna urla: «Il mio braccio, il mio braccio!», afferrando brandelli di un maglione rosso dai quali sporge un moncone insanguinato. I gilet giallo fosforescente della polizia si mescolano alle giacche a vento bianche degli organizzatori della gara in una corsa senza fiato al soccorso delle decine di persone che chiedono aiuto. A pochi minuti dall’esplosione dei due ordigni che hanno terrorizzato Boston, la scena è simile a quella vista fin troppe volte per le strade di Gerusalemme o di Kabul o di Baghad, quando vengono devastate da ordigni improvvisati, artigianali, come quelli che hanno ucciso ieri. Ma a Boston un simile orrore non era mai avvenuto. «Ho sentito un rumore fortissimo. E quella gara, che fino a pochi istanti prima era una festa, si è trasformata in puro terrore». Paolo Rossi, 48enne pistoiese, uno dei 227 italiani che, secondo le prime informazioni, erano iscritti all’evento, ha visto il traguardo della maratona e poi la morte in faccia. L’ha evitata per un soffio. «Mia figlia, che aveva scavalcato una balaustra per correre al mio fianco gli ultimi metri, ha cominciato a piangere a dirotto, ci ha raggiunto di corsa mia moglie. Tra le lacrime, non riuscivamo nemmeno a parlare. I soccorsi sono scattati subito e hanno isolato l’area».Un uomo su una sedia a rotelle viene spostato verso il lato della strada e lasciato lì ad aspettare un’ambulanza. La bocca è piegata in una smorfia di dolore, mentre gli occhi fissano il vuoto, quasi rifiutassero di osservare la carneficina attorno a lui. Il fumo rimane nell’aria, molti atleti tossiscono. La polizia allontana i passanti e un gruppo di agenti si affretta nel senso opposto della corsa, tentando di intercettare gli atleti. Vengono tutti dirottati verso il grande prato del Boston Commons, dove in breve viene organizzato un accampamenti di fortuna. Agenti e volontari distribuiscono bevande calde, coperte, conforto. Ma quello che tutti cercano, più di ogni altra cosa, è un telefono che funzioni. Nel giro di pochi minuti dopo le esplosioni le linee dei cellulari sono risultate inagibili. L’intera rete di telefonia di Boston è saltata: sospesa per motivi di sicurezza. L’unico modo di comunicare è tramite i social media, dove si inseguono tentativi di ritrovare partecipanti della maratona di cui parenti e amici non hanno notizie. Ad affollare la rete sono anche le manifestazioni di solidarietà e di preghiera. Intanto si diffondono le notizie di altre bombe. Il panico aumenta. Le sirene si succedono agli inviti della polizia, con megafoni, ad allontanarsi, a liberare la piazza. Mezz’ora dopo la prima esplosione l’area è deserta. Restano le sedie degli organizzatori ribaltate, le transenne coricate, le bandiere abbandonate per terra. E, soprattutto, il sangue, macchie rosso scuro che punteggiano la strada che, un paio d’ore prima, alcuni fra i migliori atleti del pianeta avevano calpestato con gioia.
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