domenica 29 novembre 2015
​Ad al-Qosh l'ultimo villaggio critiano alla frontiera con il califfato islamico. 
COMMENTA E CONDIVIDI
Quando si allontana anche solo di un chilometro, padre Ghazwan Shahara, mette sempre in spalla il grosso zaino nero con l’archivio digitale e i timbri della parrocchia. «Il 6 agosto non abbiamo avuto nemmeno il tempo di prendere i timbri», spiega. Al-Qosh, Chiesa di frontiera. Se pensate a una “Chiesa di frontiera” quella di al-Qosh è alla frontiera con il Califfato islamico. Il 6 agosto del 2014, quando i diavoli neri del Daesh sono avanzati nella Piana di Ninive, anche l’antico monastero di Sant’Hormizd, costruito nel VII secolo nella roccia, è rimasto vuoto. Per la prima volta, dopo secoli e secoli, nessuno ha celebrato la Messa nel paesinosantuario dei cristiani caldei. «Tutto il mondo è la nostra terra, la terra è un dono dato da Dio. Un cristiano deve essere legato alla persona di Cristo. Non alla terra, non alla casa», afferma padre Ghazwan nell’intervista a «Terra!», in onda domani in seconda serata su Rete 4. Fuggire, per i quasi 10mila asserragliati sui primi contrafforti del Kurdistan, è come un moto scritto nell’anima da frenare. Scappare, come quella notte del 6 agosto «portando niente con noi: solo la fede. Quella fede che ci ha fatto tornare qua», fino a quando sarà possibile. «Ma io come parroco», dice lentamente padre Ghazwan nel bell’italiano imparato nelle università pontificie, «sarò l’ultimo ad uscire». Si ferma un attimo e chiude per due volte gli occhi. Parroco e capo del comitato cittadino, a soli 15 chilometri dagli uomini armati con il turbante nero. «Ero il primo della lista» . Quando sono entrati a Batnaia, dopo il 6 agosto, quelli del Daesh «avevano una lista: io ero il primo», dichiara al microfono di Roberto Spampinato, padre Steven Hussain. Ora è un profugo, come 150mila cristiani, come un milione di iracheni. Questa fatta dal Califfato «è una ferita importante, difficile da rimarginare», afferma. «Che almeno adesso ci mandino una forza militare di protezione». Lacrime di un peshmerga. I check point sono appena prima di al-Qosh. «Finché vivo da qui gli islamisti del Daesh non passeranno e voi cristiani godrete della nostra incondizionata protezione», dichiara solenne Wahid Kowali Doski, l’ufficiale dei peshmerga. Sopraggiunge un compagno d’armi del fratello, rientrato apposta dalla Germania per combattere: è morto in battaglia. Wahid lo abbraccia e non riesce a fermare le lacrime. «Non erano estranei». Sono fuggiti in Libano, ma Adeeb di 5 anni, è rimasto sotto le bombe. «Abbiamo visto la bomba esplodere in casa», raccontano i genitori, e il «suo corpicino dilaniato». Ma chi sparava nel loro villaggio sapeva dove colpire: «Non erano estranei. Abbiamo spezzato con loro il pane, vengono dalla nostra comunità». Adesso il padre di Adeeb, ex insegnante di inglese, è un uomo delle pulizie in terra straniera. «Nemmeno Dio l’accetterebbe», dice. Esilio senza tempo. A Baghdad, assieme al patriarca caldeo Louis Sako hanno marciato anche dei musulmani con il cartellone: «Siamo tutti cristiani ». Una reporter musulmana libanese ha fatto la diretta tv con il crocifisso al collo. Ma ad al-Qosh, sulla tomba del profeta Naum, scavata in una antica sinagoga, l’ultimo ebreo è partito nel 1948. Un esilio senza tempo anche per i cristiani? Una sorte che potrebbe accomunare anche i cristiani di Siria: «A Raqqa, la capitale del Daesh, sono rimaste 25 famiglie cristiane. Sono quelli che non hanno nemmeno i soldi per pagare la jizya», racconta Toni Capuozzo. «Le bombe, da dovunque vengano, non potranno salvare i cristiani di Raqqa». 
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: