mercoledì 3 giugno 2015
​È uno squilibrio che ogni anno va coperto con le imposte  Senza correzioni aumenterà ancora. E pagano i giovani.
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Quando ha affidato a Tito Boeri la guida dell’Istituto nazionale della previdenza sociale Matteo Renzi non poteva non sapere quello a cui stava andando incontro. Da anni il professore della Bocconi da coordinatore del portale di ricerca economica lavoce.info pubblica studi che mostrano l’enormità dello squilibrio del sistema previdenziale italiano. Coerente con la sua storia, una volta conquistata la poltrona più potente della previdenza italiana Boeri ha avviato l’Operazione porte aperte, definita «un primo passo di un’operazione ti trasparenza» con cui l’Inps sembra avere l’obiettivo di imporre la questione pensioni nell’agenda del dibattito pubblico italiano inquadrandola come problema di giustizia e solidarietà tra le generazioni. Una questione scomodissima per chi si trova a governare questo Paese dove, come ricordano le indagini campionarie sui redditi della Banca d’Italia, siamo arrivati al punto in cui in media gli ultrasessantacinquenni guadagnano più di chi ha meno di quarantacinque anni. Se l’Inps era riuscita solo in parte a costringere l’opinione pubblica ad affrontare la questione, la sentenza della Corte costituzionale sulla riforma Fornero ha fatto il resto. All’origine dello squilibrio previdenziale c’è il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, introdotto dalla riforma Dini nel 1995 e operativo dall’anno successivo. Legando l’importo dell’assegno pensionistico alla media dei redditi degli ultimi anni lavorati invece che ai contributi effettivamente versati il sistema retributivo è ovviamente molto vantaggioso. Il risultato di quel passaggio è stato la divisione degli italiani in tre gruppi. Fanno parte del primo gruppo tutti quelli che erano già in pensione o che nel ‘95 avevano già versato almeno 18 anni di contributi. È il gruppo dei “privilegiati”, che hanno la pensione calcolata interamente secondo il metodo retributivo. Nel secondo gruppo ci sono quelli che nel ‘95 già lavoravano, ma da meno di 18 anni: questi italiani hanno il vantaggio di potere sfruttare il calcolo retributivo per tutti gli anni precedenti alla riforma mentre per il periodo successivo devono accontentarsi del contributivo. Nel terzo gruppo stanno gli altri, quelli che nel 1995 ancora non avevano lavorato e che quindi riceveranno un assegno calcolato interamente secondo il metodo contributivo, cioè quello meno vantaggioso. Oggi la grandissima maggioranza delle 14 milioni di pensioni di anzianità italiane sono in regime retributivo (12,4 milioni), mentre 1,2 milioni sono pagate con il sistema misto e solo 0,4 milioni con il contributivo puro. Ci sono casi di gruppi italiani ultraprivilegiati che hanno potuto sfruttare regimi previdenziali speciali straordinari vantaggiosi: l’Inps ha mostrato i numeri di ferrovieri, dirigenti, dipendenti del settore telefonico ed elettrico. Soltanto tra i pensionati di questi gruppi ci sono 14mila persone che prendono un assegno del 50-60% superiore a quello che gli spetterebbe con il contributivo. Ma anche senza andare su casi estremi (legittimi ma palesemente ingiusti) non si può nascondere che ovviamente per quasi la totalità delle pensioni calcolate con il metodo retributivo l’assegno è superiore a quello che sarebbe risultato con il metodo retributivo. Secondo l’analisi di due economisti vicini a Boeri, Stefano e Fabrizio Patriarca, anticipata dal Sole 24 Ore, per le pensioni vigenti la differenza media tra i due sistemi è del 24,6% e sfiora il 30% per le pensioni tra i 1.250 e i 3mila euro. Significa che se le regole imposte alla generazione dei nati dagli anni ‘70 in poi fossero state applicate ai loro predecessori, quelle pensioni sarebbero tagliate in media di un terzo. Se improvvisamente l’Italia decidesse di applicare il metodo contributivo a tutti gli assegni, calcolano i due economisti, risparmieremmo ogni anno 46 miliardi di euro di spesa previdenziale. Sta in questi 46 miliardi, differenza che presumibilmente aumenterà nei prossimi anni, lo squilibrio previdenziale italiano. La cifra è enorme, quasi un quinto dei 240 miliardi spesi dall’Inps nel 2013 per pagare le pensioni. Ed è uno squilibrio che ogni anno va coperto. Viene coperto con le tasse, perché i contributi di chi oggi sta lavorando non bastano a coprire la spesa: nel 2013, ultimo bilancio a disposizione, l’Inps ha incassato 210 miliardi di contributi e lo Stato è intervenuto con 98,3 miliardi di euro – presi dalla fiscalità generale – per rimettere in ordine i conti dell’Istituto. Boeri ha promesso un piano complessivo per contrastare questo squilibrio entro la fine di giugno. Qualche settimana fa il numero uno dell’Inps ha proposto di ridurre il divario creando una tassa del 20-30% sulla differenza tra l’ammontare dell’assegno incassato con il retributivo e quello che spetterebbe secondo il sistema contributivo, limitando l’imposta alle pensioni sopra i 3mila euro al mese. Sarebbe già un primo passo.
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