martedì 14 maggio 2013
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Torna attuale «Die Gottesfrage»: un’opera del teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988) pubblicata nel 1956 e poi trascurata per decenni, riedita con aggiunte nel 2009 e tradotta ora per la prima volta in italiano con il titolo «La domanda di Dio dell’uomo contemporaneo» (Queriniana, pp. 210, euro 32; qui sotto riportiamo parte della postfazione di Pierangelo Sequeri). In realtà negli anni Sessanta l’autore aveva rifiutato alla stessa editrice i diritti per l’edizione italiana e il libro non è incluso neppure nell’opera omnia, edita in Italia da Jaca Book e il cui programma è stato fissato direttamente da von Balthasar. Come mai? Il teologo Rosino Gibellini, direttore per l’editrice bresciana della «Biblioteca di teologia contemporanea», avanza l’ipotesi che l’autore abbia messo da parte il suo breve libro perché era troppo «dialogico con la modernità»; infatti secondo il teologo svizzero la colpa del post-concilio era di aver troppo cercato il dialogo con il mondo contemporaneo. Nel piccolo gioiello dimenticato von Balthasar accetta tra l’altro la «teoria dei tre stadi», enunciata da Auguste Comte, liberandola dalla sua interpretazione positivistica. l’uomo culturalmente è passato dalla religione alla metafisica, per approdare poi alla scienza come interpretazione risolutiva del mondo.
Scienza e cristianesimo sono le matrici di polarizzazione del confronto culturale odierno, fra le quali la religione fornisce il terreno di confronto e di scontro: elemento mediatore ma anche terzo incomodo. La scienza della natura, in quanto fattore di socializzazione dell’unico sapere razionalmente condivisibile, ormai, non è più soltanto visione del mondo: aspira essenzialmente al ruolo di garante del senso. La mossa è sottile, rispetto alla rozzezza dello scientismo, in quanto non pretende di sostituire la filosofia e la religione, ma semplicemente di garantire – in ogni ipotesi di senso – l’integrità della ragione. Un teologo che affronti questa configurazione con la passione e la freddezza necessaria all’intelligenza nella quale deve inoltrarsi, a vantaggio della fede, deve esibire, con la massima naturalezza, onestà intellettuale e dominio dei suoi mezzi. L’elaborazione del tema nel testo di von Balthasar è iscritta in una mossa di stile. Il primo tratto è il riconoscimento del fatto che l’esistenza dell’uomo porta con sé, sin dall’inizio, insieme con la vita dello spirito, la religione e la tecnica: il plesso di queste figure fondamentali dell’esperienza caratterizza sempre il mondo nel quale l’uomo appare come soggetto. «Da quando l’uomo vive sulla terra è esistito lo spirito, e con esso il sapere e la “scienza”, e con essa la cultura e la tecnica: lo attestano la prima ascia di pietra, il primo fuoco, la prima sepoltura. E quanto più indietro si spinge la tradizione umana (ed è possibile che quanto più indietro essa arriva, tanto più pura emerga), l’uomo è sempre stato un essere religioso, egli sa di essere sotto un potere divino, che deve riconoscere e venerare e dal quale deve attendere la salvezza. Così, attraverso tutti i cambiamenti storici, si dà un tipo costante di esistenza umana, una humanitas perennis».
In tal modo è già subito sbarrata la strada, anche dalla parte del cristianesimo, all’idea che la specificità umana debba essere trovata sul fronte di un’attività dello spirito che non ha niente a che fare con la scienza e con la tecnica. (...) «L’uscita dell’uomo dall’avvolgimento del cosmo – scrive Balthasar – dove egli era custodito come l’uovo nel guscio, può essere vissuta anzitutto soltanto come esperienza che oggi viene chiamata insicurezza. Ma invece di usare questa parola come un rimprovero, pieno o dimidiato – come se l’uomo fosse incappato in questa situazione pericolosa per mancanza di preveggenza e dovesse ritornare a rintanarsi il più in fretta possibile nell’involucro abbandonato – si farebbe meglio a sottolinearne il senso positivo e storicamente necessario». La lettura stessa del passaggio deve riacquistare il nitore di questa spassionata considerazione dell’ambivalenza. Nella nuova struttura del mondo – prosegue von Balthasar – l’uomo ha perso, del passato, qualcosa di giusto e qualcosa di sbagliato. (...) «La scomparsa, o almeno la limitazione, della protezione naturale rende l’uomo finalmente autentico, lo fa essere quello per cui il racconto della creazione lo ha stabilito: signore della creazione, colui che, senza abbassarsi in alcun modo al suo livello, l’amministra nel servizio responsabile di fronte al suo Creatore, e la sviluppa in conformità alle proprie tendenze». E d’altro canto, nella condizione odierna, deve pur apparire ancora di nuovo, e con definitiva chiarezza, che quest’uomo moderno, avendo “conquistato un potere sulla natura” prima del tutto impensabile, «si è al tempo stesso caricato di un’imprevista responsabilità per se stesso e per la natura». Soltanto in questa tensione, del resto, egli «è veramente uomo». Il nodo che ora ritorna in chiaro riguarda proprio la “religione”: e a questo punto, proprio nel senso per cui essa riguarda la coscienza “attuale” di questa specifica responsabilità dell’uomo per il proprio destino. «Questa responsabilità è così pesante, ma anche così ponderata, che egli non può portarla da solo; ma poiché non può più condividerla con la natura, non gli resta altro che condividerla con il Creatore: nella preghiera, nel dono di sé, nel rapporto con colui che non è un pezzo della natura e non offre all’uomo una ricetta già pronta che lo sottragga alla sua libera e decidente responsabilità». Di qui deve venire il respiro necessario per introdurre nell’orizzonte della categoria di “religione” – intermedia e insieme cruciale – il senso profondo e critico della svolta umanistica che è infine necessaria nell’epoca della scienza naturale (non contro di essa) e nell’epoca della secolarità politica (non contro di essa).
Lo sfondo della rivelazione cristologica del legame indissolubile e salvifico di Dio con l’uomo, che sempre di nuovo offre una prospettiva alla fatalità della scissione, prende respiro proprio a partire dalla parola rivelata della creazione, che ne ha rischiarato l’orizzonte. La possibilità di «infiammarsi ancora una volta per Dio», in luogo di attestarsi pigramente e pavidamente sul già pensato, una volta per tutte, ne sarà – filosoficamente, non solo teologicamente – il complemento necessario. Di qui Balthasar volge lo sguardo verso l’altro crinale di questa sua originale introduzione al tema dello “spirito del cristianesimo e del suo destino” nell’epoca ormai inaugurata e in vigore (la sfida è già stata lanciata da tempo, al cristianesimo: essa va raccolta, appunto, non incistata nel risentimento e nella malinconia). «Prima che il cristiano pensi di “cavarsela” con questo solitario di oggi, di portarlo avanti o addirittura di convertirlo, dovrebbe chiedersi con che cosa pensi di andargli incontro». Naturalmente, in un senso sostanziale e immodificabile, il cristiano sa che cosa porta: chi è Colui nel quale ha creduto, e a quale rivelazione rende testimonianza, in obbedienza e amore del suo Signore. Ma di certo, anche il cristianesimo deve ogni volta esaminare se stesso: dato che porta questo tesoro in vasi di creta, e deve ogni volta prendersi cura per il <+corsivo>lógos<+tondo> della sua speranza per l’interlocutore che si presenta. (...)
Il saggio si chiude, con elegante figura di inclusione, sul tema di una nuova “visione” della natura creata, che deve restituire respiro e orizzonte per la “solitudine” di un soggetto che è finito nel guscio di un’autocomprensione che – a dispetto delle apparenze – non intercetta più il mondo, né la storia. In questo solipsismo inapparente, l’individuo è irraggiungibile e isolato anche per la questione seria del cristianesimo. Il corpo-mondo, sottratto all’anestesia di una visione ossessivamente libidica e macchinale della natura e del cosmo, potrebbe ricominciare a parlare e a intrattenere corrispondenze con le cose dello spirito. E persino a mettersi in dialettica con il soprannaturale: accettando la sfida di un’irruzione che resiste al pensiero del caso come a quello della necessità. «La natura si trascende nell’uomo. Ma l’uomo è spirito soltanto in quanto egli trascende di nuovo verso Dio il mondo che egli è, la cui quintessenza egli rappresenta». La mortificazione della natura impoverisce il mondo e toglie senso al tempo. Alla lunga, ciò deve anche togliere respiro all’uomo. La parola di Dio non è una grandezza mondana. Eppure, rende più grande il mondo. Il nostro, in effetti, è diventato piccolo e monotono: ormai sta tutto in un iPhone. Invece, è il movimento della creazione divina, in cui siamo coinvolti e del quale siamo responsabili, che restituisce lo spazio e il tempo alla grandezza dell’anima. La nuova evangelizzazione avrà presto bisogno di mettere in contatto la ritrovata vitalità delle origini della fede con la lingua materna della creazione in cui l’uomo prende il respiro di Dio. Ossia lo spirito. L’affresco di questo piccolo gioiello che è la Gottesfrage di Balthasar è ancor oggi un glossario perfetto per riaffezionarci all’impresa.
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