domenica 10 marzo 2013
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Abbiamo un vitale bisogno di riscoprire la virtù dell'ospitalità. Soprattutto nei confronti dei giovani, che stanno diventando ogni giorno di più i primi stranieri in una società di adulti che non capiscono, che non dà loro spazio, che li ha indebitati senza chiedere loro il consenso, e che vedono degradare i loro luoghi, la scuola soprattutto. Il mondo è cambiato troppo velocemente, e se persino noi adulti avvertiamo con chiarezza la fine di un sistema, non è difficile immaginare quanto distante e strano apparirà questo nostro vecchio mondo a un ventenne, a una quindicenne. Ci sono generazioni che invecchiano prima di altre, è la storia a dircelo. La nostra è una di queste. «Sì, funziona, ma non dà i soldi», ha esclamato ieri un ragazzo di circa 10 anni in una metro di Roma, con l'intenzione di correggere la mamma che aveva risposto con un secco "no" a un signore che le aveva domandato: «Funziona il bancomat?». In realtà avevano ragione sia la madre che il bambino, perché ciascuno guardava diversamente la stessa macchina: strumento per avere contanti (mamma), touch-screen colorato con tanti pulsanti (bambino). Dialoghi simili, e civilmente molto più rilevanti, stanno diventando troppo frequenti nel mondo della scuola e del lavoro, dove si fa fatica a intendersi, a parlarsi, a stimarsi. A dirci senza troppa filosofia che i giovani sono estranei e stranieri nella loro terra è quel 38% di disoccupazione giovanile, un numero che non dovrebbe farci dormire la notte; e invece dormiamo, perché ormai assuefatti ai numeri negativi, ma ancor più perché ci stiamo dimenticando che ogni giovane non è figlio soltanto dei suoi genitori, ma è figlio di tutti. C'era forse qualcosa di questa figliolanza (e di questa fraternità) universale alla radice della regola aurea dell'ospitalità che ritroviamo alle radici della nostra storia, una ospitalità che portava a considerare l'ospite/straniero come sacro, e quindi da onorare con l'offerta di doni. Le grandi civiltà avevano intuito che non c'è nessuna persona che sia veramente estranea né straniera. Ce lo suggerisce anche la giustamente famosa frase di Terenzio: «Sono uomo. E ritengo che nulla di ciò che è umano mi è estraneo». In ogni essere umano, e in un certo senso anche in ogni realtà della creazione, vive e rivive qualcosa di me, e di me in loro, come se nel genoma di ogni essere vivente ci fosse una traccia di tutti gli altri. Credo che Francesco d'Assisi volesse dirci, con altra bellezza e forza, qualcosa del genere con il suo "Cantico delle creature". La natura più profonda della norma dell'ospitalità non è allora l'altruismo, è la reciprocità: «Ricordati, anche tu eri straniero» (Esodo). Dobbiamo essere ospitali con lo straniero (che si trova in quanto straniero in una condizione di fragilità e di vulnerabilità), anche perché lo siamo stati noi, i nostri nonni, e perché lo potranno essere i nostri figli. È condizione dell'umano. È questa ospitalità-reciprocità di cui si sente la mancanza nella nostra cultura; e la sentono soprattutto i giovani perché, insieme con gli anziani, sono quelli che ne hanno un estremo bisogno per vivere bene, e, sempre più, per vivere e basta. Invece quando oggi un giovane si incontra con il mondo del lavoro fa troppe volte l'esperienza di Ulisse con Polifemo, il ciclope che in Omero rappresenta l'immagine della inciviltà, proprio perché praticava l'anti-accoglienza: invece di offrire doni ai suoi ospiti, li divorava. Invece del pane, la pietra; non l'uovo, ma lo scorpione. Stiamo vedendo troppi giovani divorati da anni di non-lavoro, da un ozio non scelto e non meritato che mangia giorno dopo giorno il loro capitale umano acquisito studiando, e quello non rinnovabile della giovinezza. E altrettanti giovani divorati da un lavoro sbagliato, quello imposto da quelle grandi imprese, banche, società di consulenza capitalistiche che assumono giovani senza la gratuità dell'ospitalità: li usano, li spremono, non danno loro il tempo di crescere bene. Obblighi senza doni. Che li divorano un po' alla volta. E i "fortunati" che riescono ad accedere a questi lavori-caverne, si ritrovano con enormi massi che ostruiscono l'uscita. Il masso più pesante è la crisi che stiamo vivendo, che li porta ad accettare, o a non lasciare "all'apparir del vero", lavori sbagliati perché devono vivere, per fame. Così diventa normale che le grandi imprese, al posto dei "doni ospitali", facciano firmare contratti capestro dove il giovane, come "contro-dono" all'impresa che gli paga il master, si impegna a restare in quella impresa per un certo numero di anni. Pratiche servili, quasi roba da schiavi. Sono certo che da tali master-capestro non potrà mai fiorire l'umanità delle persone, che ha bisogno sempre dell'acqua della libertà e della luce della gratuità. Ma nell'economia complessa di oggi e di domani, senza persone libere e "fiorite in umanità", non arrivano più neanche la crescita e i profitti dell'impresa. Occorre allora rilanciare una nuova cultura dell'ospitalità lavorativa, dove le imprese investano veramente nei primi anni di lavoro di giovani che ricevano, e reimparino a donare. E in questi giorni in cui si parla molto di "salario di cittadinanza", non dobbiamo mai dimenticare che il primo dono che la società civile e le istituzioni devono fare ai loro giovani è il dono del lavoro, mettendoli nelle condizioni, a partire da migliori studi, di poter lavorare, e possibilmente di lavorare bene. ​​​​
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