lunedì 5 maggio 2014
Per fondare rapporti, famiglie, amicizie, imprese, dobbiamo imparare e reimparare a parlare...
di Luigino Bruni
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Senza il libro di Giobbe, il Cantico, i Salmi, il Vangelo di Luca, il libro della Genesi, l’arte la poesia e la letteratura sarebbero molto diversi, certamente più poveri di bellezza e di parole. Ma alla base della forza anche poetica della Bibbia c’è una radicale, incondizionata, assoluta fedeltà alla parola, molto difficile da capire per noi lettori di oggi, ma decisiva anche per noi. Nel ciclo di Isacco la natura e la forza della parola emergono all’interno di una tensione tra il piano "eversivo" di Rebecca e la volontà di Isacco. L’Alleanza tra JHWH e Abramo continua con due gemelli che ci vengono presentati rivali e in conflitto fin dal seno materno («i figli si scalciavano l’un l’altro dentro di lei», 25,22). Esaù «divenne un esperto cacciatore, un uomo rustico, mentre Giacobbe divenne un uomo tranquillo, un sedentario» (25,27).
Parallelamente ci viene svelata una predilezione incrociata dei genitori per i figli: «Isacco prediligeva Esaù», mentre la madre «Rebecca prediligeva Giacobbe» (25,28). Isacco, sentendo prossima la morte, chiede a Esaù di cacciare per lui della selvaggina «cosicché l’anima mia ti benedica prima che io muoia» (27,4). Rebecca «stava ascoltando» quel dialogo e disse a Giacobbe: «Figlio mio, obbedisci  alla mia voce... Va’ dal gregge e prendimi da là due bei capretti, perché ne faccia delle pietanze gustose per tuo padre … cosicché ti benedica prima della morte» (27,8-10). E Giacobbe: «Guarda che Esaù, mio fratello, è peloso, mentre io sono senza peli. Forse mio padre mi tasterà … e mi attirerò addosso una maledizione piuttosto che una benedizione» (27,11-12). E Rebecca: «Su di me la tua maledizione figlio mio»(27,13). Così Rebecca «prese i migliori vestiti di Esaù… e ne rivestì Giacobbe, suo figlio minore, mentre con le pelli dei capretti rivestì le sue mani e la parte pelata del suo collo» (27,15-17). E Giacobbe andò dal padre e disse: «Sono Esaù, tuo primogenito» (27,19). Isacco tasta il figlio e dice: «La voce è la voce di Giacobbe, ma le mani sono le mani di Esaù» (27,22). Ma dopo avere anche odorato i vestiti di Esaù («l’odore di mio figlio è come l’odore di un campo», 27,28), pronuncia la sua benedizione: «Ti conceda Dio rugiada dal cielo, grasse terre e abbondanza di frumento e di mosto…» (27,28-29). Dopo la benedizione rubata, torna Esaù dalla caccia, e offre al padre le sue pietanze. E Isacco: «Chi sei?». Rispose: «Sono tuo figlio, il tuo primogenito, Esaù» (27,32). E qui arriva la svolta narrativa.
Un lettore moderno, e ignorante del prosieguo del racconto, a questo punto si aspetta che la giustizia di Isacco lo spingerà a richiamare Giacobbe, revocare la sua benedizione, e magari trasformarla in maledizione. E invece non accade nulla di tutto questo: «Allora Isacco fu scosso da un tremito fortissimo e disse: "Tuo fratello è venuto con l’inganno e si è preso la tua benedizione"» (27,35). Isacco riconosce l’inganno, soffre per il suo figlio prediletto, ma non ritira la benedizione: «L’ho benedetto. E proprio benedetto resterà» (27,33). Esaù «alzò la sua voce e pianse» (27,38). Così Esaù entra nel popolo invisibile degli scartati ma non abbandonati, in compagnia di Ismaele, di Caino, e dei loro tanti figli. Per entrare in questo complesso episodio, dobbiamo sospendere il giudizio "etico", rinunciare alle analisi politiche (Esaù che divenne capostipite di popoli rivali di Israele) o psicologiche sui comportamenti di Giacobbe e di Rebecca, e concentrarci soprattutto su Isacco, e sulla logica dell’Alleanza e della parola. Isacco è il figlio-dono-ridonato di Abramo, continuatore dell’Alleanza di suo padre e dell’arcobaleno di Noè, erede del Patto con quella Voce che aveva creato il mondo dicendolo, pronunciandolo. Quella Parola che aveva chiamato per nome Abramo, parlato con lui, e poi anche con Isacco (26,2-6). Avevano dialogato con Dio della Parola creatrice, e avevano creduto alla forza di quelle parole. Le parole che avevano detto la promessa erano state efficaci, parole dette per sempre.
La custodia e la fedeltà all’Alleanza dovevano, allora, essere anche custodia e fedeltà alla parola. Ma per custodire la parola e non farla degenerare, il "prezzo" da pagare fu la sua irrevocabilità: se la parola crea dicendo, allora crea sempre e per sempre, anche quando dice credendo a un figlio che ci sta ingannando. Isacco non poté ritirare quella benedizione perché quelle sue parole erano parole creatrici, avevano operato, avevano cambiato la realtà, avevano fatto di Giacobbe, il soppiantatore, un benedetto, «e proprio benedetto resterà». La Genesi, e tutta la cultura biblica, hanno salvato tutta la forza della Parola affermando e salvando anche l’irreversibilità delle parole, assumendone tutte le dolorose, a volte dolorosissime conseguenze – si pensi, per un caso estremo, all’episodio scandaloso della figlia di Iefte (Giudici 11, 30-40). Ma fu grazie a questa custodia a ogni costo della parola che qualcuno un giorno poté scrivere: «La parola si è fatta carne» (Giovanni 1,14).
I poeti, gli scrittori, i giornalisti, tutti gli amanti e gli amici della parola, del suo valore e della sua responsabilità, devono essere riconoscenti a Isacco e all’Umanesimo biblico per aver salvato la forza creatrice della parola. La nostra cultura ha smarrito questa forza, il suo essere per sempre. Siamo inondati da parole che non dicono più nulla, che si moltiplicano come se la moltiplicazione di parole scritte possa supplire la morte della forza creatrice della parola detta. Così riempiamo i contratti di innumerevoli parole scritte e mai pronunciate, che dicono la sfiducia e l’inefficacia delle parole che dovrebbero fondarli. La forza dei contratti scritti può invece nascere soltanto dalla forza delle parole. I contratti sono nati come evoluzione di patti, che erano, e sono, parole creatrici. I contratti sono carta morta quando dietro alla parola scritta non resta più nulla di creatrice ed efficace – quando le civiltà decisero di mettere per iscritto patti, contratti e Legge lo fecero per dare più forza alla parola detta, non per sostituirla.
Qualcosa dell’antica forza delle parole sopravvive oggi nei (pochissimi) patti che non sono ancora diventati solo contratti. Durante il rito matrimoniale, ad esempio, sono le parole degli sposi a creare la nuova realtà della "carne sola", parole che poi vengono rafforzate e ratificate dalle firme degli sposi e dei testimoni. Se non ci fossero prima quelle parole creatrici, le firme nell’atto matrimoniale non direbbero nulla, o direbbero molto male. È dirsi la promessa reciproca che fa la famiglia, è l’incontro delle voci che la crea. Tutti sappiamo, e non dobbiamo dimenticarlo, che quando vogliamo dire qualcosa di importante a un famigliare o a un amico – una grande richiesta di perdono, ad esempio – non è sufficiente scrivere una lettera, tantomeno una email. C’è bisogno di parlare, e di dire "perdonami", e c’è bisogno di sentirsi dire "ti perdono", non basta vederlo scritto. Ieri come oggi, per fondare rapporti, famiglie, amicizie, imprese, dobbiamo imparare e reimparare a parlare, dobbiamo dirci e ridirci gli uni gli altri i patti, le promesse, le alleanze, e dirlo "a voce alta". Tutto ciò è vero anche per le imprese e per i mercati, che quando perdono contatto con le parole delle persone, si snaturano ed escono dal territorio dell’umano. La forza della parola "ti amo" detta a una persona (e a una sola) la si capisce solo all’interno di una visione responsabile perché creatrice e irreversibile della parola e delle parole.
Il nostro tempo vive una profonda notte della parola e delle parole, e così rischia di morire affogato in un mare di chiacchiere, di chat, di sms. Dobbiamo assolutamente riconciliarci e rincontrare la parola e le parole, con la loro serietà e responsabilità. In questo nuovo incontro un grande, decisivo, aiuto ci verrebbe dall’ascolto e dalla frequentazione dei poeti. I poeti sono essenziali per vivere, perché creano, fanno vivere le parole, e le difendono dalla morte. E sono essenziali soprattutto nei nostri tempi senza parola e quindi senza parole. Dopo Leopardi i "luoghi" di Recanati e del mondo non sono più gli stessi: le fanciulle sono "donzellette", i colli sono "ermi", e i passeri "solitari". La sua poesia li ha ricreati e cambiati per sempre.Grazie Padre Isacco, e grazie Esaù, che avete pagato un caro prezzo per custodire per noi la parola. A noi la responsabilità di non disprezzare il vostro dono.l.bruni@lumsa.it
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