giovedì 30 luglio 2015
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Prescrizioni mediche non appropriate, cioè non indispensabili né utili a fini diagnostici. È un tema centrale di politica sanitaria, tornato di grande attualità in questi giorni dopo l’approvazione del decreto legge sugli enti locali che prevede, nell’ambito dei tagli alla sanità, anche la possibilità di penalizzazioni economiche per i medici che effettuano prescrizioni ritenute inadeguate o non sufficientemente giustificate. Secondo il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, questo modo di operare costa all’intero Sistema sanitario nazionale circa 13 miliardi di euro l’anno. Stima mozzafiato, ma non nuova. Di qui la necessità di misure di razionalizzazione della spesa per rendere più efficiente e meno costosa l’erogazione dei servizi.  Il fenomeno delle prescrizioni mediche inappropriate è cominciato circa vent’anni fa, esplodendo poi in misura esponenziale in questi ultimi tempi. La semeiotica clinica (cioè la capacità del medico di riconoscere mediante una visita accurata i segni della malattia) è stata sostituita dalla semeiotica radiologica (vale a dire la possibilità di visualizzare con metodiche sempre più accurate e meno invasive, come la Tac e la Risonanza Magnetica, le parti del corpo che si ritengono sede di processi patologici). Secondo alcuni recenti studi, almeno il 40 per cento degli esami radiologici richiesti sarebbe inutile. Basterebbe tornare a privilegiare l’approccio clinico e la necessità di tali esami sarebbe dimezzata.  È cambiato anche il rapporto tra medico e paziente. Alla competenza professionale del medico vengono spesso contrapposte le informazioni che il paziente possiede (quasi sempre assunte tramite Internet) su una determinata patologia. Di qui la 'pretesa' del paziente di avere il 'diritto' a effettuare tutti gli esami che egli ritiene opportuno per sé, con l’approvazione (spesso eccessivamente accondiscendente) del medico a queste richieste, anche per evitare ritorsioni legali. Ne scaturisce una 'medicina difensiva' che non giova al paziente e che tutela solo illusoriamente il medico: una sconfitta sanitaria per entrambi e per la società.  Il problema del resto non è solo italiano o europeo. Negli Stati Uniti quasi tre quarti dei medici ammette che si chiedono test diagnostici non necessari e si effettuano procedure inappropriate: questo rappresenta uno dei problemi più gravi per il sistema sanitario americano. Per affrontare la questione, ha preso il via qualche anno fa il progetto Choosing Wisely (Scegliere correttamente), promosso da alcune società scientifiche statunitensi e da un’associazione di consumatori, per fornire indicazioni pratiche ai medici onde evitare procedure inutili, non appropriate e talvolta addirittura dannose per i pazienti. In questa direzione anche in Italia l’associazione Slow Medicine ha lanciato nel dicembre 2012 il progetto 'Fare di più non significa fare meglio', con lo scopo di evitare nel nostro Paese il sovrautilizzo di esami diagnostici e di trattamenti medici non adeguati. Questa è la strada corretta per evitare un autentico spreco di risorse in ambito sanitario e per tutelare al meglio la salute delle persone. L’inappropriata richiesta di approfondimenti diagnostici è una questione di cultura medica e di etica professionale prima ancora che di economia sanitaria. Non si può risolvere con sanzioni pecuniare o disposizioni legislative. Solo fornendo ai futuri medici un’adeguata preparazione di metodologia clinica, stabilendo una proficua collaborazione tra specialisti e medici di famiglia e recuperando un corretto rapporto di fiducia e di 'alleanza terapeutica' tra medico e paziente sarà possibile rifondare una vera medicina al servizio dell’uomo. Ciò, in ogni caso, non significa che Asl o Regioni possano trovare in questa razionalizzazione delle prescrizioni una scusa per 'stringere' eccessivamente sulle spese, costringendo i medici a rinunciare ad accertamenti diagnostici che essi reputano veramente necessari e sui quali la decisione finale dovrebbe restare alla competenza e alla coscienza del personale sanitario.
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