Opinioni

Libia, naufraghi, trafficanti e regole. Prima i fatti, signor ministro

Paolo Lambruschi sabato 15 giugno 2019

Ed eccoci all'ennesimo caso di una nave messa in mare da una organizzazione umanitaria, una Ong, stavolta la tedesca "Sea Watch 3", che con il suo carico di migranti naufragati e salvati nel Mediterraneo viene bloccata davanti a un porto italiano. Un porto «chiuso» a esseri umani poveri e dalla pelle scura. Un caso che sollecita alcune riflessioni sull'abitudine a trattare il dramma dei salvataggi in mare solo mettendo in campo, in forma di slogan, le proprie opinioni e dimenticando i fatti.

Abbiamo di nuovo sentito definire la Libia «porto sicuro». Lo ha fatto il ministro dell’Interno italiano sui social e in tv. E sempre senza contraddittorio. La sua è un’opinione ampiamente smentita dai fatti, che sono argomenti testardi. Vediamoli.
La nave tedesca "Sea Watch 3" mercoledì scorso, pochi giorni dopo esser stata dissequestrata dalla Procura della Repubblica di Agrigento, ha salvato 53 migranti fuggiti dalla Libia in acque Sar libiche, cioè a 40 miglia dalla costa. Poi, in ottemperanza al diritto del mare, ha chiesto e ottenuto l’intervento della Guardia costiera del Paese nordafricano capitanata, però, dal criminale internazionale Bija, cui il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha bloccato i conti correnti poco più di un anno fa (come "Avvenire" scrisse a suo tempo e ha confermato domenica scorsa). Questo "galantuomo" è da tempo nel mirino delle Nazioni Unite perché opera con la sua milizia privata come sorvegliante di centri petroliferi, ma anche come trafficante di uomini e contrabbandiere ad ampio raggio. Bija ha messo a disposizione del governo di Fayez al-Sarraj la sua forza militare per combattere le milizie del generale Khalifa Haftar e nel caos libico si è "riabilitato". Insomma, i fatti, non le opinioni dicono che il ministro Matteo Salvini che si vanta di combattere i trafficanti di esseri umani, curiosamente avrebbe voluto che la "Sea Watch 3" restituisse i migranti in fuga proprio a un boss di questo lurido traffico. La "Sea Watch" si è rifiutata e si è messa alla ricerca del porto sicuro più vicino, cioè Lampedusa. Altro che «ciondolare in mezzo al mare», i tedeschi han tenuto la schiena diritta, e non si sono resi complici dei trafficanti.

La seconda riflessione riguarda la sorte degli stranieri bloccati nel presunto «porto sicuro» libico. La Libia è nel mezzo di una guerra civile. Nelle stesse ore in cui il ministro Salvini ordinava alla "Sea Watch" di tornare in Libia «porto sicuro per i migranti», il nostro ambasciatore a Tripoli Buccino incontrava il premier al-Sarraj per parlare – secondo il sito "Libyan Observer" – delle procedure per curare i militari feriti negli attacchi a Tripoli negli ospedali italiani. Perché lo ha fatto se la Libia è Paese «sicuro»? La contraddizione è clamorosa. O forse non è sicuro per gli italiani e gli stessi libici, ma per i profughi africani sì?
Eppure, la sorte che attenderebbe quelli riportati in terra libica (secondo Msf sarebbero 10 mila in 12 mesi quelli recuperati dai guardacoste di al-Sarraj) è terribile: l’internamento in «campi di prigionia disumani nei quali avvengono orrori indicibili», stando alla definizione data dall’Onu. Centri governativi, finanziati da governi europei, certi sovraffollati, in condizioni igienico sanitarie men che precarie, dove tortura e abusi sono pratiche abituali, come abbiamo dimostrato più volte su questo giornale e come ribadito da numerosi organi di informazione internazionale. Solo a Tripoli ci sono circa 5 mila migranti in centri simili, per giunta esposti ai combattimenti, quindi in pericolo di vita. Altre decine di migliaia di persone sono in lager "privati" controllati solo dai loro padroni, in condizione che è impossibile immaginare migliori dei «disumani» campi governativi.

Infine, la Commissione europea ha dato ragione venerdì a Sea Watch 3 affermando per bocca di una portavoce che «tutte le navi con bandiera europea sono obbligate a rispettare il diritto internazionale e il diritto sulla ricerca e salvataggio in mare che comporta la necessità di portare delle persone in un posto o porto sicuro. La Commissione ha sempre detto che queste condizioni non si ritrovano in Libia». La Libia «porto sicuro» è, poi, opinione smentita dallo stesso Salvini quando questi chiede l’intervento della Ue per mettere in sicurezza un porto libico. Ma se il diritto internazionale parla chiaro, il decreto sicurezza bis entrato in vigore proprio venerdì offre il gancio politico per scatenare una nuova tempesta in mare sulla pelle di 53 disgraziati che indietro non possono tornare.