mercoledì 6 marzo 2024
Con l'aeroporto internazionale e i porti nelle mani delle bande, il leader non riesce a rientrare nell'isola. In sua assenza l'esecutivo è imploso. Altre quindicimila persone in fuga dai combattimenti
Abitanti in fuga dagli scontri a Port-au-Prince

Abitanti in fuga dagli scontri a Port-au-Prince - Ansa

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L’epicentro della battaglia è l’aeroporto Touissant Louverture di Port-au-Prince. I cecchini delle gang hanno le armi puntate sull’unica pista di atterraggio. L’hanno già colpita più e più volte da sabato come confermano i buchi sparsi nell’asfalto. L’obiettivo è bloccare il traffico e impedire il ritorno nell’isola del premier Ariel Henry. Fonti ben informate sostengono che il leader ad interim abbia lasciato da oltre 48 ore Nairobi, dove si era recato per avviare lo schieramento della missione internazionale a guida kenyana. E ora sarebbe bloccato negli Stati Uniti nell’intento di tornare nell’isola. In sua assenza, a rappresentare il governo è il ministro dell’Economia, Patrick Michel Boisvert. Ma di fatto, negli ultimi cinque giorni, anche i brandelli superstiti di architettura istituzionale sono stati polverizzati dal “golpe delle bande”. Il boss Jimmy Chémizier alias Barbecue sembra essere riuscito a unificare la variegata galassia di gruppi armati informali che, nel vuoto istituzionale, già da tempo, hanno conquistato oltre l’80 per cento della capitale. Ora, però, non si tratta più di aggiudicarsi frammenti di territorio da cui estrarre risorse, soprattutto con l’estorsione. L’attacco è rivolto direttamente contro lo Stato.

L'epicentro dei combattimenti è l'aeroporto internazionale

L'epicentro dei combattimenti è l'aeroporto internazionale - Reuters


Dopo il penitenziario nazionale e la prigione di Croix-des-bouquets, sono stati presi di mira i ministeri e le infrastrutture di base, molti commissariati sono stati incendiati e perfino gli hotel sono stati assaltati. Anche l’ospedale dei camilliani e quello di San Francesco di Sales sono a rischio. Nei quartieri del centro di Port-au-Prince si combatte casa per casa. Altre quindicimila persone – dopo le migliaia della settimana scorsa – sono fuggite dalle case distrutte e molti stanno cercando disperatamente di lasciare la capitale. I nuovi sfollati si sommano ai 320mila registrati dall’Onu l’anno scorso e tuttora accampati in tendopoli di fortuna. La Repubblica Dominicana ha ribadito il rifiuto di aprire un corridoio alla frontiera e di allestire dei campi profughi per chi fugge. La paura è palpabile. E sta contagiando anche le colline di Petionville, zona tradizionalmente residenziale dove vivono gli stranieri. Con le vie di fuga – via mare e aria – bloccate, gli abitanti si sentono in trappola. Il coprifuoco dichiarato fino alla notte di oggi non è in grado di fermare la battaglia. I diecimila poliziotti in servizio non riescono a fronteggiare le bande, superiori in numero – si parla di alcune decine di migliaia di esponenti, giovani e giovanissimi, tra il 30 e il 50 per cento sono minori – e, soprattutto, in armamenti, grazie al florido contrabbando dagli Usa. Secondo gli esperti ci vorrebbe almeno il triplo degli agenti. Anche perché le bande hanno subito reclutato i quasi 5mila detenuti fatti evadere dopo il doppio assalto alle prigioni. In realtà già i 10mila attivi sono un dato al rialzo: gran parte hanno lasciato la divisa e sono nascosti per salvarsi la vita. Proprio dalla sproporzione di forze è nato, già a ottobre 2022, il grido di aiuto al mondo di Henry.

Infrastrutture e commissariati sono stati dati alle fiamme dalle bande

Infrastrutture e commissariati sono stati dati alle fiamme dalle bande - Reuters


Un appello tuttora inascoltato nonostante il via libera dell’Onu. Ci è voluto un anno di continui tira e molla perché, a settembrem si arrivasse alla configurazione di un contingente internazionale coordinato dal Kenya. Il 26 gennaio scorso, però,l’Alta corte di Nairobi ha bloccato l’iniziativa a causa della mancanza di un accordo bilaterale con Haiti per gli scambi di forze di polizia. Henry si era recato nel Paese proprio per siglarlo. Grazie alla pressione di Usa e Comunità dei Caraibi (Caricom), la settimana scorsa, la missione sembrava finalmente prendere forma. Oltre al Kenya, Benin, Ciad, Bangladesh, Barbados e Bahamas avevamo messo a disposizione truppe, per un totale di circa tre migliaia di agenti. Burundi, Senegal, Belize, Antigua, Barbuda, Suriname, inoltre, avevano espresso una disponibilità. Certo, delle centinaia di milioni di dollari promessi da Usa, Canada e Francia solo 11 milioni sono stati effettivamente depositati. Ma il grosso sembrava fatto. Non è un caso che il “golpe anomalo” sia maturato proprio in questo contesto. Al momento è difficile prevedere come si evolverà la situazione. Molto dipenderà dall’effettivo rientro di Henry, considerato l’unico interlocutore da parte della comunità internazionale in assenza di alternative. Per questo gli Usa premono per il ritorno. Con i voli di linea fermi, si profila l’ipotesi di un charter. Il punto è dove e se riuscirà ad atterrare. Nel frattempo, la guerra infinita di Haiti va avanti. E il mondo resta a guardare.

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