sabato 30 settembre 2023
Pink power o pink washing?
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Mentre le ricerche confermano che la maggior parte delle persone continua a usare il telecomando per cambiare canale durante le interruzioni pubblicitarie in televisione, milioni di persone si sono accanite davanti a uno schermo per la visione di uno spot lungo un’ora e cinquantaquattro minuti. Il clamoroso successo del film Barbie ha qualcosa di sorprendente dal punto di vista socio-culturale, ma visto con la lente di chi opera nel mondo del marketing e della pubblicità si tratta della più colossale operazione commerciale da che il capitalismo ha intinto il suo pennino nell’inchiostro dell’advertising contemporaneo. Non si tratta di product placement, la strategia di posizionare prodotti di marca dentro le pellicole di James Bond, per citare il caso più emblematico. Né di una sponsorizzazione, né di una produzione promossa dal più famoso giocattolo al mondo: qui si tratta di una storia cinematografica, costruita intorno alla bambola inventata da Mattel in pieno boom economico nel 1959.

Barbie si è inserita da subito nelle coordinate narrative dell’epoca, decisamente meno sensibili di oggi ai temi della parità di genere, alimentando un palinsesto di stereotipi rosa che hanno contribuito significativamente a creare quell’immaginario collettivo che distingue i maschi dalle femmine, con i rosa e gli azzurri a contendersi le discriminazioni che trovano così facile dimora nei sistemi familiari che da lì in avanti arriveranno fino ai giorni nostri. Ed eccoci, appunto, con seimilaottocentocinquantaquattro secondi impossibili da inserire in qualsiasi break pubblicitario, con l’epica della bambola che si emancipa, si fa addirittura femminista e trionfa sul patriarcato (spoiler) sventolando sul pubblico del film diretto da Greta Gerwig e interpretato da Margot Robbie una bandiera rosa che di shocking ha sicuramente l’incasso del botteghino in tutti i paesi in cui è stato proiettato. È pubblicità civile? Comunque la si pensi, credo valga la pena attraversare le pagine di Carl Rhodes, il cui Woke Capitalism viene pubblicato in Italia proprio in questi giorni per Fazi Editore, con prefazione di Carlo Galli e traduzione di Michele Zurlo. C’è scritto che l’impegno di brand e prodotti sui territori dell’etica finisce per minacciare seriamente la democrazia. Io credo che la politica e la democrazia possano ignorare Barbie per il momento, ma non sottovaluterei la malizia pubblicitaria con cui la regina dei cliché ha scelto la muscolarità del mainstream per obbedire alle sensibilità inedite di mamme e bambine. Ché per i maschietti la Barbie continuerà a essere uno scomodo tabù.

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