giovedì 8 febbraio 2024
La Cina in cucina: dal figlio unico al figlio per sempre (e a tempo pieno)

Reuters

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La tipica giornata “lavorativa” della blogger Zhang Jiayi, 31 anni, è scandita da appuntamenti fissi e quasi rituali: uscire la mattina con i suoi genitori, accompagnarli al mercato per fare la spesa, preparare il pranzo, riposare, dedicarsi a tutte le altre faccende domestiche. Julie ha 29 anni e trascorre le sue giornate lavando i piatti, preparando i pasti per i suoi genitori, occupandosi della casa a tempo pieno. Zhang, all’inizio della sua nuova “carriera”, non era in grado neanche di «distinguere tra i vari tipi di verdura»: cucinare, guidare e fare la spesa è stato come penetrare «dentro un territorio completamente sconosciuto». Ma ora, racconta, «ho capito come funzionano questi compiti, non sono così difficili come immaginavo». Li, 21 anni, ha messo da parte il suo sogno di diventare una fotografa di successo e ora dedica le sue giornate ad accudire sua nonna che soffre di demenza. Chen, 27 anni, ha confessato di aver lasciato il lavoro e di essere ritornata a casa dai genitori perché estenuata e avvilita: «Dopo aver pagato l’affitto – racconta – mi restava poco o niente per vivere».

Un filo rosso avvolge e unisce le vite di Zhang, Li, Julie, Chen: sono tutti “figli a tempo pieno”, un fenomeno che si sta espandendo a ritmi vertiginosi in Cina. Ragazzi o giovani adulti che scelgono di disertare il mondo del lavoro, di sfuggire alla sempre più feroce competizione che “elettrizza” la vita aziendale e di riparare tra le mura domestiche. Ricevendo (in alcuni casi) anche un salario da parte dei genitori. Difficile catturare la portata reale di questo fenomeno. L’agenzia Associated Press ha azzardato una cifra, parlando di «16 milioni di giovani cinesi che, scoraggiati dalle difficoltà di trovare un lavoro dignitoso, sono tornati a casa».
Come si spiega questa diserzione di massa a cui, peraltro, il Covid ha impresso un’ulteriore accelerazione? Si tratta di una fuga dalle responsabilità e dal mondo adulto o, al contrario, di un rigetto dell’ideologia lavorista, di quel lavorare dalle «9 alle 21, sei giorni alla settimana» che ritma – o cancella – la vita quotidiana dei cinesi?

Siamo davanti a un fenomeno complesso, ramificato, che affonda in un mix di ragioni profonde, alcune evidenti, altre sotterranee. Ma tutte toccano le profonde trasformazioni dalle quali è attraversata la società cinese. A cominciare dallo “stato di salute” del mercato del lavoro. Asfittico, ristretto dal rallentamento dell’economia e “respingente”, in particolare per i giovani e, ancora di più, per i giovani laureati. Costretta ad abbandonare il ruolo di fabbrica del mondo, Pechino sta cercando di reinventarsi. Il cambiamento è catturato da un dato: nel 2023 le esportazioni di beni cinesi sono calate per la prima volta dal 2016.
Per Zhu Hong, professore di marketing ed e-commerce presso dell’Università di Nanchino, «la struttura dell’economia cinese non ha ancora completato il passaggio dall’industria ad alta intensità di manodopera e di fascia bassa a quella tecnologiche ad alto valore aggiunto».

Il risultato di questo processo lento e travagliato di cambiamento è una disoccupazione giovanile galoppante che, per la fascia di età fino ai 24 anni, ha raggiunto nel mese di giugno la soglia record del 21 per cento. Poi il dato si è “inabissato”, con Pechino che ha fornito una nuova rilevazione soltanto a dicembre (14,9 per cento) con tanto di “trucco”: la componente studentesca è stata stralciata dalla statistica. Il dato reale della disoccupazione potrebbe essere in realtà molto più elevato. L’«ammissione» è sfuggita a Zhang Dandan, professore dell’Università di Pechino, sulle colonne della rivista Caixin Global. «La disoccupazione giovanile in Cina ha sfiorato, nel mese di marzo, quota 50 per cento». Una cifra allarmante, che collide con la stima ufficiale dell’Ufficio nazionale di statistica. Tanto che, misteriosamente, l’articolo è evaporato dal Web, non prima di essere però “captato”, destando una scia di commenti e spigolature tra gli analisti.

I giovani laureati restano fuori dalla porta del mondo del lavoro, proprio nel momento in cui l’università cinese da elitaria è diventata di massa. Nel corso del 2023 un “esercito” di 11,6 milioni di laureati è entrato a far parte della (aspirante) forza lavoro. E la cifra potrebbe aumentare ulteriormente. Le iscrizioni all’istruzione terziaria sono aumentate dal 30% nel 2012 a quasi il 60% lo scorso anno. Le incognite che gravano sul mondo del lavoro sono fitte. Secondo alcune stime, l’automazione potrebbe espellere dal mercato del lavoro, da qui al 2030, circa 220 milioni di lavoratori.

Un altro fattore che alimenta la fuga dal lavoro è il desiderio delle nuove generazioni di disimpegnarsi da ritmi di lavoro giudicati ossessivi. E dalla “feroce concorrenza” che segna molte realtà aziendali. Marguerite Wang, dopo aver lasciato il suo posto di lavoro, ha confidato di non volersi «ritrovare nella stessa situazione lavorativa di prima, nella quale non avevo una vita privata e tutta la mia energia era risucchiata dal lavoro». C’è, ancora, la sfasatura tra la realtà del mondo del lavoro e le ambizioni dei figli della classe media. «Ci sono opportunità di lavoro, ma le opportunità di lavoro sono di bassa qualità», ha spiegato Xiang Biao, capo dell’Istituto Max Planck. «Quindi per l’unico figlio di una famiglia cinese, che ha ricevuto un’istruzione, che è cresciuto in un periodo di abbondanza, è molto difficile accettare un tipo di lavoro percepito come squalificante».

Infine un altro elemento carsico sta agendo e favorendo la «grande dimissione» in versione cinese. Il Partito comunista, attraverso la feroce politica del figlio unico, ha inflitto un colpo quasi mortale alla famiglia tradizionale e alla sua struttura. Un’opera di ingegneria sociale che, per decenni e prima di essere precipitosamente abbandonata, ha portato alla polverizzazione dei rapporti familiari. Non solo: le migrazioni interne hanno finito per disperdere quel che restava di nuclei familiari già duramente colpiti. Nel fenomeno dei “figli a tempo pieno” c’è, dunque, anche un reflusso, un ritorno – se pure segnato da storture e contraddizioni – alla famiglia.


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