lunedì 5 giugno 2023
Per anteporre il destino dei "commons" a quello individuale occorre partecipazione e inclusione. Cruciale l'emergere di una governance "multilivello" centrata sulla collaborazione
Solo una responsabilità diffusa protegge i beni comuni
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Si conclude qui, oggi, un viaggio iniziato nel marzo del 2021, durante il quale, su queste pagine, siamo andati, insieme, alla scoperta del modo in cui i beni comuni possono contribuire alla promozione del bene comune, del modo in cui tali beni rischiano di essere distrutti a causa della loro natura “tragica” e dei modi attraverso i quali, invece, possono essere protetti, preservati ed accresciuti. Abbiamo scoperto come e perché tra i beni comuni possono essere annoverate cose così diverse come l’ambiente, le risorse naturali, la fiducia reciproca, la qualità del dibattito pubblico, la salute globale degli abitanti di questo pianeta, il buco dell’ozono e i pascoli comuni dei nostri piccoli condivisi montani. Beni enormemente diversi tra loro ma accomunati dal contributo essenziale che ognuno di essi può dare alla qualità della nostra vita quotidiana. Un contributo fondamentale che già oggi manifesta i suoi effetti ma che è destinato a crescere nei decenni a venire. Abbiamo scoperto quanto la dimensione del “comune” sia fondamentale per le nostre esistenze ed anche quanto essa sia problematica. Quanto abbia a che fare con la libertà personale e la responsabilità che ognuno di noi assume nei confronti di coloro con i quali vive e condivide un comune destino. Abbiamo esplorato modi e luoghi nei quali si sono sviluppati anticorpi alla “tragedia dei beni comuni”. La possibilità che relazioni informali si trasformino in istituzioni solide e durature; il ruolo delle comunità nel monitorare e punire, dove necessario, comportamenti opportunistici; la fondamentale azione delle motivazioni intrinseche che dovremmo cercare attraverso norme e regole, di preservare e di promuovere; la bellezza di un’antropologia che descrive la persona come capace di gratuità, reciprocità ed equità; un’antropologia che riesce a fondare, naturalisticamente, le nostre più basilari idee di giustizia.

Un’esplorazione, quella che abbiamo compiuto insieme in questi anni, mese dopo mese, grazie all’ospitalità de L’economia civile, che se da una parte ci ha fornito, credo, tante risposte, altrettanti interrogativi abbia fatto sorgere. Quale lezione possiamo trarre, sinteticamente, e quale indicazioni operative, possiamo trarre, che riguardi non tanto e non solo le istituzioni, ma ognuno di noi? Quali scelte, nel quotidiano, ci possono interpellare e quali risposte possiamo dare, giorno dopo giorno, per facilitare la risoluzione del destino tragico che forse troppo pessimisticamente, molti scienziati sociali, preconizzano rispetto alla sostenibilità nel tempo dei beni comuni?

Una lezione fondamentale, al riguardo, ci viene dal lavoro di Elinor Ostrom, prima donna a vincere il premio Nobel per l’Economia proprio per il suo lavoro sul tema dei commons. Grazie a decenni di lavoro sul campo, nel quale vengono analizzati migliaia di casi di successo e di insuccesso di gestioni comunitarie di beni comuni, la Ostrom sintetizza le conoscenze apprese in otto principi di base. Partendo dal presupposto che le due soluzioni tradizionali al problema dei beni comuni che potremmo indicare con gli imperativi “statalizza” e “privatizza”, non sono le uniche possibile e neanche le più indicate i molti delle situazioni problematiche in cui la gestione dei beni comuni si manifesta, la Ostrom propone un approccio alternativo. Occorre facilitare l’assunzione di responsabilità da parte dei soggetti direttamente implicati nella gestione dei commons secondo un principio che potremmo assimilare a quello di “sussidiarietà”. In secondo luogo, occorre favorire l’emergere di istituzioni, insieme di regole, che vengono messe alla prova attraverso un processo evolutivo di tentativi ed errori grazie al quale la loro efficacia viene testata e la loro natura via via migliorata. Il terzo elemento è la natura complementare di tali istituzioni che sono chiamate a collaborare con altre istituzioni su livelli di governo differenti. È un principio simile a quello che oggi definiremo governance multilivello, dove istituzioni di natura differente sono chiamate a collaborare, adattandosi ai rispettivi ruoli, al raggiungimento dell’obiettivo comune. Il quarto fattore caratterizzante dell’approccio della Ostrom è la sua natura policentrica. In una società policentrica, le decisioni sono gestite da molte istituzioni diverse, indipendenti, di dimensioni e natura differenti. Il vantaggio di questo genere di istituzioni riguarda principalmente la maggiore capacità, rispetto ad un assetto monocentrico, di attivare ed utilizzare le conoscenze locale e distribuite. Questo genera maggiore efficienza e una migliore capacità di adattamento; si riduce il rischio di fallimenti distribuendo responsabilità e livelli decisionali. Infine, un assetto policentrico rappresenta il modo migliore per garantire coinvolgimento e partecipazione da parte di tutti gli attori potenzialmente interessati alle conseguenze delle scelte collettive.

Perché in fin dei conti la scelta di proteggere i nostri beni comuni, anteponendone il destino al nostro interesse individuale, è legata alla nostra capacità di ragionare nei termini del “noi”. E non esiste un “noi” lì dove non c’è partecipazione democratica, inclusione, coinvolgimento, responsabilità diffusa. Chiunque abbia responsabilità di governo, ad ogni livello, oggi si trova qui davanti a un dilemma: cedere potere e diventare efficace o accentrare sempre più e ritrovarsi incapace di risolvere i problemi più pressanti del nostro presente? In mezzo ci siamo tutti noi, che questo nuovo protagonismo dovremmo non solo auspicarlo, ma desiderarlo e perfino pretenderlo.

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