sabato 13 aprile 2024
L'attivista cattolica, nata a Belfast, si impose - unica donna - nelle trattative che posero fine a 30 anni di conflitto anglo-irlandese: «Gli uomini parlano di potere, noi allarghiamo i confini»
La politica cattolica nordirlandese Monica McWilliams

La politica cattolica nordirlandese Monica McWilliams - .

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Monica McWilliams, cattolica di Belfast, è stata una pioniera. Negli anni ‘90, quando la politica in Irlanda del Nord era ancora considerata un affare soltanto per gli uomini, fu l’unica donna ammessa ai negoziati che sarebbero culminati nello storico accordo di pace del 1998. Il suo era un impegno che veniva da lontano: da oltre vent’anni affiancava al lavoro di ricercatrice universitaria sulle discriminazioni di genere un’intensa attività di volontariato con le donne nelle aree più povere della Provincia britannica. Nell’aprile del 1996, insieme alla protestante Pearl Sagar, fondò la Northern Ireland Women’s Coalition (NIWC), un partito politico che si proponeva di superare le tradizionali divisioni confessionali della società nordirlandese mettendo al centro i diritti civili, l’inclusione e l’uguaglianza. In appena sei settimane riuscì a farsi eleggere all’assemblea di Belfast e poi ebbe un ruolo cruciale durante i colloqui di pace multipartitici che dopo quasi trent’anni riuscirono a far cessare il conflitto anglo-irlandese. «All’inizio molti non mi prendevano sul serio e mi dileggiavano dicendomi che dovevo starmene a casa a badare alla famiglia, non in Parlamento», racconta a distanza di tanti anni.
Dopo aver lasciato l’assemblea legislativa di Belfast nel 2003, McWilliams è stata prima nominata alla guida della Commissione per i diritti umani dell’Irlanda del Nord, poi consulente del Ministero della Giustizia per la riforma del sistema carcerario nordirlandese. Attualmente fa parte della Commissione indipendente per lo smantellamento dei gruppi paramilitari ed è professoressa emerita dell’Istituto di giustizia transizionale della Ulster University.

Come nacque la Northern Ireland Women’s Coalition e come riuscì a prendere parte ai colloqui di pace che portarono all’accordo del 1998?

Fu il frutto di un lavoro che avevo iniziato da giovane, partecipando alle attività del Movimento per i diritti civili fin dalla fine degli anni ‘60. Nel 1975 aprimmo i primi centri nelle aree rurali per il contrasto alla violenza contro le donne, intorno a essi prese forma poi un movimento femminile di massa. Ma nella seconda metà degli anni ‘90, quando in Irlanda del Nord si arrivò finalmente a un cessate il fuoco e furono avviati i colloqui di pace, nessun partito sembrava intenzionato a inserire le donne tra i delegati ai tavoli negoziali. Non si presero neanche la briga di rispondere alle nostre lettere. Decidemmo allora di organizzarci da sole creando un nostro partito.

Perché decideste di chiamarlo “coalizione”?

L’idea fu quella di sottolineare il fatto che eravamo un movimento sociale in cui si esprimevano posizioni politiche differenti in un paese fortemente segregato e inquinato dal settarismo. Non avevamo altro modo di far sentire la nostra voce, poiché in base all’architettura costituzionale dell’epoca soltanto i primi dieci partiti in termini di consenso elettorale avrebbero avuto la possibilità di prendere parte ai colloqui di pace. Ci siamo rese conto che bastava ottenere diecimila voti e che per un piccolo partito di donne come il nostro non sarebbe stata un’impresa impossibile, però avevamo appena sei settimane di tempo ed eravamo senza un soldo. Potevamo contare soltanto sulle nostre reti di contatti. Ci mobilitammo in tutta fretta e alla fine sia io che Pearl Sagar riuscimmo a farci eleggere.

Su cosa si basava il vostro programma?

Non ci interessavano le ideologie, né l’appartenenza confessionale. I nostri capisaldi imprescindibili erano l’inclusione, l’uguaglianza e i diritti umani. Alcune di noi erano assai progressiste e femministe, altre più conservatrici. Alcune sostenevano l’unione con la Gran Bretagna, altre ancora avrebbero voluto invece la riunificazione dell’Irlanda e la fine del legame con Londra. Eravamo un gruppo davvero pluralista e c’era anche qualche uomo che apprezzava il nostro lavoro per la pace. Ma avevamo tutti dei familiari, degli amici o dei conoscenti che erano stati uccisi o si trovavano in prigione. E volevamo impegnarci per porre fine a tutto questo con una pace giusta.

Come avete fatto a convincere i politici e l’opinione pubblica dell’epoca dell’importanza di avere una rappresentanza femminile?

Non sono affatto sicura che alla fine ci siamo riuscite. Se nel 1996 non fossimo state elette non ci saremmo demoralizzate. Volevamo risaltare il fatto che non potevano esserci solo uomini ai colloqui di pace, a parlare di cose che riguardavano anche le donne. E che noi avremmo posto una serie di questioni cui gli uomini non avrebbero mai pensato. All’inizio non ci prendevano sul serio, ci insultavano, ci dicevano che dovevamo starcene a casa, che il nostro compito era fare le casalinghe e procreare per l’Ulster. Ma le cose cominciarono a cambiare quando videro quanto eravamo preparate. Venivamo dalle università, dai sindacati, dal mondo del lavoro, dalla società civile e avevamo lavorato con i parenti delle vittime e con i sopravvissuti della guerra. Avevamo capacità che negli altri partiti erano assenti. Ci dicevano che la questione della parità di genere sarebbe venuta dopo i colloqui di pace ma noi ribadivamo che dovevamo esserci prima, durante e dopo, perché eravamo parte integrante di un percorso verso una società più giusta. A un certo punto scoprimmo che erano in corso negoziati a nostra insaputa, dai quali stavano cercando di escluderci.

Da allora sono trascorsi 25 anni e l’Irlanda del Nord ha finalmente riconosciuto il ruolo decisivo svolto dalle donne nel processo di pace.

L’anno scorso, alle celebrazioni del 25esimo anniversario tante persone si sono congratulate con noi, riconoscendo il grande lavoro che abbiamo svolto. Ci hanno definito un esempio da seguire in altre realtà di conflitto. Negli anni ‘90 non lo diceva nessuno. All’epoca ero una donna con figli piccoli che doveva prendersi cura di una sorella in ospedale, di una madre anziana e che lavorava all’università. Eppure sono stata capace di prendere parte ai colloqui di pace. A ripensarci adesso mi chiedo come abbia fatto. Ma dovevamo farlo, a tutti i costi.

Oggi la società nordirlandese è cambiata?

Non sono sicura che l’atteggiamento mentale sia cambiato poi così tanto. Oltre a mettere fuori uso le armi, bisognerebbe eliminare la mentalità sessista e misogina presente nella nostra società.

Qual è il valore aggiunto che possono offrire le donne nel percorso verso la pace?

Le donne sono in grado di allargare lo sguardo, riescono ad ampliare l’agenda della politica. Di solito gli uomini che partecipano ai colloqui di pace parlano di armi, di rilascio dei prigionieri, di riforma delle forze di sicurezza, o ridistribuzioni territoriali. Insomma, parlano di potere. Sono questioni importanti ma non parlano mai di questioni che vengono poste dalle donne, come i sistemi educativi, le politiche per il futuro dei propri figli, di come vivere insieme creando spazi sicuri di convivenza, delle vittime e di come risarcirle, o di questioni relative ai diritti umani e all’uguaglianza. Quando discutono su un cessate il fuoco gli uomini di solito parlano di come interrompere i bombardamenti e gli omicidi ma non pensano mai a come far cessare gli stupri. Quello è un altro tema che viene posto soltanto dalle donne.

Che impressione le fa vedere che ora a guidare l’esecutivo di Belfast sono due donne?

Non è soltanto una questione di mera presenza ma di politiche femminili. Molte donne in posizioni di potere (penso ad esempio a Margaret Thatcher) non erano minimamente interessate all’emancipazione femminile. Credo che le donne debbano avere un approccio politico progressista, inclusivo di altre donne, debbano essere attente alle minoranze etniche, ai disabili e alle persone Lgbt.

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