venerdì 19 aprile 2024
Le due vite dell’italoeritrea, da manager ad angelo degli ultimi lungo le rotte dal Corno d’Africa: «Nelle guerre, da ogni parte del mondo, pagano sempre i i più deboli»
Un ritratto di Alganesh Fessaha

Un ritratto di Alganesh Fessaha - .

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Battersi per la pace per Alganesh Fessaha è aiutare i migranti vittime delle guerre dimenticate e ridare loro dignità e speranza. Denuncia da decenni gli orrori delle rotte migratorie che dal Corno d’Africa attraversano il deserto e arrivano in Europa dal Mediterraneo. Non lascia tranquille le coscienze assopite e una politica indifferente richiamando, soprattutto con i fatti, le ingiustizie e le persecuzioni che provocano esodi. Come, ultimamente, la guerra dimenticata in Tigrai con i suoi 600 mila morti e gli indicibili stupri etnici. O la dittatura in Eritrea che arruola anche a forza gli adolescenti e li congeda a 50 anni facendo fuggire flussi di disperati. Dei quali Alganesh Fessaha è sempre stata la voce. A Lampedusa ha passato mesi dopo il 3 ottobre 2013 ad accogliere e ascoltare i superstiti del naufragio, eritrei come le vittime. Ha rischiato la vita per liberare i profughi rapiti nei deserti del Sahara e del Sinai dalle galere dove chi fugge dalle dittature e guerre del Corno d’Africa è strato rapito e violentato, torturato dalle gang di trafficanti spesso legate ai governi e ai jihadisti in una rete criminale ancora misteriosa. Questa donna minuta, determinata e coraggiosa è andata alla radice del traffico di esseri umani, il terzo business illegale mondiale, generato dai conflitti predatori e dalle persecuzioni unite ai mutamenti climatici che affliggono il Corno. E ha contribuito a realizzare i corridoi umanitari con Cei, Caritas e Sant’Egidio da due paesi chiave come Etiopia e Niger.

Alganesh Fessaha, attivista italo eritrea, da oltre 20 anni con la sua Ong “Gandhi Charity”, composta da donne africane e italiane, di vite ne ha salvate migliaia. Lei invece ne ha avute due. Nella prima era una manager in carriera di origine eritrea di una grande azienda laureatasi in Italia. Nella seconda è diventata doctor Alganesh, come la chiamano i profughi, medico ayurveda che li ha salvati dalle prigioni del Sinai in Egitto e da anni è riferimento per i viaggiatori della speranza come per i bambini del Benin e della Guinea Bissau, in Africa occidentale, dove ha aperto scuole che consentono ai più piccoli di studiare e consumare almeno un pasto al giorno. Per queste attività ha ricevuto molte onorificenze tra cui l’Ambrogino d’Oro milanese ed è stata insignita del titolo di Grand’ufficiale dal Capo dello Stato. In diversi giardini dei Giusti,a partire da quello di Milano al Monte Stella, sono stati piantati alberi con il suo nome.

Quando è cominciata la sua lotta per la pace?
In Sudan, dove mi trovavo per lavoro, alla fine del ‘900. In Italia avevo dimenticato i valori che mi aveva insegnato mia madre all’Asmara. Vivevo per la carriera in una multinazionale, ho ritrovato me stessa davanti a un gruppo di ragazzini eritrei i cui genitori erano stati uccisi durante la guerra tra Etiopia ed Eritrea. Avevano tra i 4 e i 13 anni, erano diventati fratelli di strada. Chiesi loro se potevo aiutarli e si rifiutarono per orgoglio, ma il mio istinto materno stava tornando fuori e insistetti. Dopo tre giorni accettarono. Aiutarli è stato il modo di oppormi alla guerra, alla violenza cercando di dare a queste vittime innocenti un futuro diverso.


Per costruire la pace bisognerebbe insegnare
al bambino cosa vuol dire aiutare
il prossimo, non restare indifferenti.
Io ho cominciato così, aiutando.
Aiutare è stato il modo di oppormi alla guerra,
alla violenza, cercando di dare
alle vittime innocenti un futuro

Un aiuto proseguito soprattutto nel Sinai alle vittime del mostruoso traffico di esseri umani e organi...
Ho sentito di sequestri al confine eritreo e delle violenze indicibili per estorcere riscatti alle famiglie dei profughi rapiti dai Rashaida dai campi in Sudan. Inaudito. Sono riuscita a entrare nelle carceri dove venivano imprigionati. Cercavo i prigionieri, poi ricevevo le chiamate dalle persone detenute e ho cominciato a liberarli dalle carceri statali dove erano finite per immigrazione illegale. Poi ho iniziato la liberazione dei prigionieri dei predoni beduini del Sinai cui venivano rivendute in un mercato immondo.

Chi l’ha aiutata?
Uno sceicco salafita che all’inizio non voleva nemmeno incontrarmi e parlarmi in quanto donna e di un’altra religione. Ma non l’ho rigettato perché la salvezza dei prigionieri era prioritaria. Con lui, Sheikh Mohamed, abbiamo poi collaborato anni per salvare i sequestrati dalle celle dei sequestratori beduini. Chi non pagava i riscatti veniva ucciso e gli venivano espiantati gli organi per rivenderli al mercato nero. Andavamo di notte nel deserto a liberarli mentre i carcerieri dormivano o erano ubriachi. Abbiamo salvato circa 800 persone che poi con l’Unhcr abbiamo riportato al Cairo. Dove chi voleva è partito poi per l’Etiopia, come gli eritrei che hanno chiesto asilo. Una sorta di antesignano dei corridoi umanitari. Poi alcuni li ho ritrovati a Lampedusa dopo che avevano attraversato il Sahara, il Sudan e la Libia e il mare. Nessuno li può fermare. Oggi Sheikh Mohamed mi chiama mamma quando ci sentiamo. Come i profughi che abbiamo salvato. Il potere dell’amore, della compassione e della disponibilità può farci raggiungere insieme la pace.

Lei ha denunciato e documentato le violenze sistematiche sulle donne rapite nel Sinai, in Libia, e in Sudan sulle rotte migratorie. E poi gli stupri di guerra contro le donne dal Tigrai. Perché avvengono?
La violenza è insita nell’uomo secondo me. Certo non tutti i maschi sono violenti. E non conta che le violenze contro le donne avvengano in molti Paesi arabi. In Tigrai, la culla della cristianità in Africa, ad esempio, durante la guerra dal 2020 al 2022 le donne sono state vittime di stupri etnici di una crudeltà indicibile da parte di soldati cristiani. Per costruire la pace bisognerebbe insegnare al bambino cosa vuol dire aiutare il prossimo, non restare indifferenti. I torturatori del Sinai che stupravano le prigioniere di ogni età davanti a mariti e figli o in diretta telefonica o in video per estorcere i riscatti alle famiglie, cosa che avviene ancora oggi nei lager libici, e che hanno seviziato i prigionieri con pratiche orribili, hanno confessato di aver fatto ad altri quello che i carcerieri egiziani avevano fatto loro quando erano stati arrestati. Ecco, questa catena di odio va spezzata. Queste cose succedono in Paesi dove c’è stata o è cominciata la guerra. In Ucraina sono spariti tanti bambini, in Sudan e in Palestina spariranno. Pagano sempre i più deboli, nessuno o quasi denuncia. Il commercio illegale degli organi è cresciuto e un bambino viene considerato alla stregua di un pezzo di ricambio. Dobbiamo dire basta.

Cosa possono fare le donne per la pace?
Possono essere il filo conduttore se rispettate e valorizzate. I valori della donna sono immensi, penso al maternage, all’amore della madre per il figlio. Se venisse riconosciuta e promossa la leadership femminile in politica e in diplomazia ci sarebbe più pace. Alla donna non piacciono sangue e violenza. Nelle manifestazioni per la pace vedo più donne che uomini, tantissime giovani si battono per i diritti umani e lo stop dei conflitti. Sono la speranza.

Perché l’Africa è dilaniata dai conflitti e ha un forte sentimento antieuropeo?
Molti Paesi sono in guerra perché spesso è l’Occidente a volerlo. Non tiriamo in ballo i tribalismi, a certi Stati fa comodo vendere armi. E sta crescendo tra gli africani un sentimento antieuropeo perché dal 1960 ad oggi l’Europa non ha mostrato la sua faccia reale, ha solo mostrato i muscoli e ha creato società che mendicano aiuti senza rispettarne la dignità. Con tutta la ricchezza che ha espropriato all’Africa, l’Ue si ritrova governi e un’opinione pubblica che vogliono un approccio diverso: know how in cambio delle risorse. Oppure si rivolgono alla Cina, alla Russia, all’India. La cooperazione paritaria è il modo di combattere disuguaglianze e conflitti. È fondamentale per la pace globale riconoscere all’Africa autonomia nel gestire le proprie ricchezze.

A quale donna si è ispirata?
A mia madre. Senza di lei mio padre, un uomo politico, non avrebbe fatto strada. Lui voleva l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia con mezzi non violenti, era soprannominato Gandhi. Anche mia madre era contraria alla guerra, diceva che il mondo e l’Africa sono come una famiglia in cui tutti i figli devono crescere insieme. Senza i suoi valori non avrei intrapreso la mia lotta per la pace.

Che cosa ci insegnano le donne africane?
Immagini la statua di una tipica donna africana. Ha un bambino per mano, uno dietro di lei, un altro in braccio e in testa porta la cesta con la spesa. Va a cercare l’acqua anche attraversando per km zone desertiche. E lo fa per amore, porta il suo mondo sulle spalle eppure sorride sempre. Anche i suoi bambini non piangono perché nonostante tutto si sentono amati. Questa è la lezione di pace delle donne d’Africa.

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