giovedì 18 aprile 2024
Per lo scrittore inglese l’esegesi partiva dalla vita per arrivare all’universale L’opera non era la realizzazione di un’intenzione, ma si «srotolava» da sé nella scrittura
J.R.R. Tolkien

J.R.R. Tolkien - Ansa

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Anticipiamo una sintesi dell’intervento che Giuseppe Pezzini, studioso di letteratura latina e filosofia del linguaggio e dell’immaginazione presso le Università di Oxford e St Andrews, terrà domani nell’ambito del convegno “Tolkien: l’attualità del mito”, che si svolge oggi e domani a Roma presso la Pontificia Università della Santa Croce. Occasione sono i 50 anni dalla morte dello scrittore inglese. Oltre a Pezzini editor del “Journal of Inklings studies” e autore di un libro sulla teoria letteraria in Tolkien in uscita per Cambridge University Press - interverranno numerosi studiosi. Ci saranno pure una lettura teatrale e un concerto multimediale ispirati all’autore del Signore degli Anelli.

Uno degli elementi più affascinanti della visione letteraria tolkieniana è la constante enfasi sulla percezione che aveva delle sue storie come qualcosa di altro da sé. Tolkien scrisse per esempio che nel Signore degli Anelli aveva incontrato personaggi che non avevano nulla a che fare con lui e che infatti «nemmeno voleva», insieme a elementi narrativi che «erano sorti naturalmente», a volte «contro (...) [la sua] iniziale intenzione ». Infatti, nello scrivere il Signore degli Anelli Tolkien «aveva in mente ben pochi propositi particolari, consapevoli, intellettuali » , e «non stava inventando, ma riportando (imperfettamente)» (ibidem).

Le parole più incisive a questo proposito si trovano proprio nella famosa lettera 163, scritta al poeta W.H. Auden, in cui Tolkien scrisse che guardava «con distacco» il Signore degli Anelli e per questo motivo trovava tutte le interpretazioni del libro «abbastanza divertenti», incluse le sue, che erano «per lo più post scriptum». Proprio per questo, aggiunse nella stessa lettera, «eccetto che per poche recensioni deliberatamente dispregiative (...), ciò che i lettori (…) hanno preso dal libro o ci hanno visto, mi è sembrato abbastanza ragionevole, anche quando non ero d’accordo. Escludendo sempre, ovviamente, ogni “interpretazione” basata sull’allegoria semplice: ovvero quella particolare e quella d’attualità».

Questa auto-rappresentazione di Tolkien come primo lettore e interprete della sua opera rivela quale fosse la sua concezione sul controllo del senso di un testo letterario. Nel passo sopra citato, Tolkien rinuncia infatti alla sua posizione di dominio autoriale e presenta la sua come una delle tante possibili interpretazioni. Questo passaggio esemplifica l’atteggiamento non possessivo di Tolkien nei confronti della sua opera, al punto che si potrebbe parlare nel suo caso di una vera e propria “morte dell’autore”, nella sua specifica accezione barthesiana.

Il significato dell’opera secondo Tolkien non è infatti “posseduto” dall’autore stesso, e non deriva nemmeno dall’intenzione cosciente dell’autore; piuttosto, è l’autore (in quanto primo lettore) che “scopre” il significato mentre scrive e interpreta il suo testo, gradualmente, e sempre in modo limitato e incompleto. Questa coscienza di avere soltanto una «comprensione limitata» e un’«incompletezza di informazioni » è un altro elemento importante dell’autocostruzione autoriale di Tolkien, che si riflette, all’interno della sua mitologia sub-creativa, nell’incompleta «conoscenza del dramma della creazione» da parte dei Valar Come raccontato nel Silmarillion, i Valar sono gli angeli artisti che hanno collaborato con Eru (il Dio della Terra di Mezzo) alla creazione del mondo di Arda, la loro opera sub-creativa, che però in ultima istanza non appartiene solo a loro, perché Eru ha aggiunto in essa, inaspettatamente, della “vita segreta”.

I Valar sono consapevoli di essere semplici coautori della loro creazione, che in ultima analisi dipende da Eru. Questa umiltà sub-creativa è tematizzata soprattutto nel Silmarillion, ed è all’origine della rinuncia dei Valar a dominare gli Elfi e gli Uomini, i quali rimangono per loro qualcosa di altro da sé, i Figli di Ilúvatar. Per Tolkien questa rinuncia aveva implicazioni metaletterarie e questo è confermato in alcune lettere, in cui usa un linguaggio analogo per motivare la sua antipatia per l’allegoria; l’allegoria infatti risiede nel «dominio mirato dell’autore» e vìola la «libertà del lettore». Poiché per Tolkien l’allegoria ha una stretta relazione con l’“attualità” e il “significato” primario di un elemento letterario (o secondario), si può concludere che il rifiuto di Tolkien dell’allegoria è solo un’altra sfaccettatura del suo atteggiamento non possessivo nei confronti dell’interpretazione della sua opera.

Questa auto-rappresentazione di Tolkien come primo interprete dei propri libri si può rintracciare in molte altre lettere, e illumina la sua generale concezione del rapporto tra verità e bellezza, tra senso e forma narrativa di un’opera letteraria. Abbiamo detto che Tolkien sosteneva di scoprire, piuttosto che imporre, il “significato” degli elementi narrativi che emergevano naturalmente e inconsciamente nel processo di scrittura. Ma sminuire il ruolo dell’intenzione dell’autore non significa negare che la sua opera sia priva di significato. Infatti, continua Tolkien nella lettera ad Auden: «Suppongo sia impossibile scrivere una “storia” qualunque che non sia tanto allegorica quanto “piena di vita”; poiché ognuno di noi è un’allegoria, personificata in un racconto particolare e rivestita di tempo e luogo, verità universale e vita eterna».

La rinuncia sub-creativa al desiderio di dominio sul “significato” della propria opera – cioè l’accettazione di una “morte” barthesiana – non impedisce dunque all’autore o a qualsiasi altro lettore di riconoscere il significato “universale” e profetico di qualsiasi storia che sia piena di “vita”, come fa Tolkien interpretando il Signore degli Anelli post scriptum. Anzi, è vero l’esatto contrario, perché, come scrive Tolkien nello stesso passo sopra citato, più una storia «è piena di vita», più diventa «allegorica».

La distruzione dell’Anello sul Monte Fato in un’illustrazione di Denis Gordeev

La distruzione dell’Anello sul Monte Fato in un’illustrazione di Denis Gordeev - WikiCommons

L’auto-esegesi tolkieniana non si oppone al riconoscimento di elementi universali, semmai conduce ad esso, e questo vale soprattutto per l’interpretazione del significato di situazioni chiave dell’opera: queste includono, ad esempio, l’“apostasia” di Frodo sul Monte Fato, della cui rilevanza e attualità non aveva idea fino a quando non aveva letto l’episodio, come afferma nella lettera 181 (scritta nel 1956). Sarebbe il massimo atto di dominio per l’autore o per qualsiasi altro interprete negare che, all’interno di una storia ben costruita, sia essa primaria o secondaria e indipendentemente dalle intenzioni dell’autore o dalla consapevolezza dei personaggi, possa essere nascosta «verità universale e vita eterna».

Rifiutare di riconoscere e accettare il significato universale di una storia secondaria significherebbe, per l’autore, imporre la propria intenzione autoriale; così facendo, impedirebbe lo sviluppo “naturale” della storia e rifiuterebbe di inserire personaggi, situazioni o collegamenti inaspettati (o persino indesiderati). Per riassumere l’atteggiamento non possessivo di Tolkien nei confronti della sua opera, si può citare un ultimo passaggio che proviene dalla “Nota introduttiva” di Tolkien al volume Albero e foglia, che raccoglie due testi che trattano specificamente «in modi diversi» la sub-creazione, “Sulle Fiabe” e “Foglia di Niggle”.

Questi testi, scrive Tolkien, furono scritti nello stesso periodo, «quando Il Signore degli Anelli cominciava a srotolarsi e a dispiegare prospettive di lavoro e di esplorazione in un paese ancora sconosciuto, tanto scoraggianti per me quanto per gli hobbit. All’incirca in quel periodo avevamo raggiunto Brea, e allora non avevo più idea di loro di cosa fosse diventato Gandalf o di chi fosse Grampasso; e cominciavo a disperare di sopravvivere per scoprirlo». Il Signore degli Anelli non era la realizzazione dell’intenzione di Tolkien, piuttosto si stava «srotolando » da solo; scriverlo, per Tolkien, era «un’esplorazione» in un «paese sconosciuto». L’esperienza di Tolkien è analoga a quella dei Valar che entrano in Arda, la loro opera sub-creativa di cui hanno solo una conoscenza preliminare imperfetta e che è abitata da creature diverse da loro, il cui significato avrebbe scoperto eventually, si direbbe in inglese, cioè durante e al termine dell’evento letterario.

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