sabato 30 agosto 2014
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Mani in grembo. Sguardo vigile. Non gli sfugge il senso profondo di una domanda, l’arguzia di una risposta. Riaffiorano con ordine tutti i ricordi, mentre tiene in mano una serie di quadernetti e legge, quando necessario, le frasi che vi ha scritto. È Giulio Andreotti, intervistato tra il 2003 e il 2005 da Tatti Sanguineti e Pier Luigi Raffaelli. Ventuno sedute, di sabato, oltre quaranta ore di girato. Parte di ciò che riguarda il cinema è stato utilizzato dallo stesso Sanguineti che ne ha ricavato un film, Giulio Andreotti – Il cinema visto da vicino, presentato alla Mostra nella sezione Venezia Classici, distribuito da Istituto Luce-Cinecittà, che ha fornito le belle immagini di repertorio, e con il patrocinio del Comitato Giulio Andreotti. Alla sua nascita ha partecipato anche la figlia dell’uomo politico italiano, Serena. «Papà diceva di essersi divertito moltissimo a quegli incontri – racconta – e che gli erano tornati alla memoria un’infinità di episodi. Il periodo che iniziò con la sua nomina a sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo, avvenuta nel giugno del 1947 a soli ventotto anni, fu il più bello della sua vita. Anche molto intenso, importante e gratificante». L’episodio che l’ha maggiormente colpita?«A livello personale ho trovato molto interessante la parte che riguarda la rinascita di Cinecittà. Ancora nei primi mesi del 1947 gli studi erano un campo profughi, sembra fossero almeno quattromila. Papà si adoperò con grande umanità e ponderazione per la ricollocazione di tutti gli sfollati, prima di iniziare i lavori per la riapertura. Sono immagini che non avevo mai visto, molto forti».Rigore e fedeltà ai principi appaiono le caratteristiche di suo padre, anche quando deve trattare col mondo del cinema e dialogare coi suoi protagonisti.«È un aspetto essenziale della sua attività, dovuto alla sua formazione democristiana, intesa nel senso migliore del termine. Per lui vivere e agire politicamente erano la stessa cosa. Certo molte azioni e parole rispecchiano proprio una mentalità democristiana legata a quei tempi. La censura, ad esempio, che oggi appare intollerabile».Nel film abbondano gli esempi: con ironia Andreotti ricorda le sue valutazioni sulle gambe di Silvana Pampanini o sugli scatti d’ira di Don Camillo. E poi gli interventi sui film, dalla proibizione di far circolare “Guerra alla guerra” di Romolo Marcellini, considerato antiamericano, all’avversione per “Umberto D.” di de Sica (celebre la battuta di Andreotti: «I panni sporchi si lavano in famiglia») e per “Il diavolo in corpo” di Claude Autant-Lara.«Tutto aveva un senso, basta inquadrare il periodo storico. Mio padre a proposito della censura parla di inopportunità e di prevenzione. È una logica molto chiara dettata dall’articolo 21 della nostra Costituzione, che fu centrale nell’applicazione della censura. Si trattava di proteggere dall’oscenità gli adolescenti: all’epoca questo aveva un senso».Sia quando propone disegni di legge, come quella del 1949 a sostegno del cinema italiano, sia quando prende posizione su questioni spinose o favorisce l’apertura di quattromila sale parrocchiali negli anni ’50 in cui far circolare film «buoni e attraenti» («Una predica la gente va a sentirla gratis in chiesa, non in una sala di cinema», dichiara con franchezza), emerge un’altra qualità: non acutizzare mai gli estremi ed evitare le polemiche. «È un aspetto fondamentale del suo carattere: il rispetto di tutti, anche di chi non la pensava come lui. All’epoca non esistevano attacchi rancorosi».Andreotti nel film si sbilancia solo quando racconta l’episodio legato alla proiezione privata, avvenuta a Castel Gandolfo nel 1949 alla presenza di Pio XII, del Cielo sulla palude diretto da Augusto Genina sulla vita e il martirio di Maria. Alla vista delle gambe della protagonista Ines Orsini che esce dal mare, il Papa rimase turbato e in un colloquio riservato se ne lamentò con suo padre. «Un momento difficile nella mia vita», ricorda. Ne ha mai parlato con lei?«Mai. Mi disse solo di aver conosciuto suor Pasqualina. Quanto avvenne con Pio XII probabilmente lo riteneva un fatto del tutto privato».Affiorano altri ricordi. Alberto Sordi: non gli era piaciuto il modo con cui in “Mamma mia, che impressione!” l’attore romano, a suo dire, «sfotteva i cattolici in quanto tali».«Ma poi papà partecipò volentieri alle riprese del Tassinaro, interpretando se stesso, unico film della sua vita, ricevendo come compenso non del denaro ma un bellissimo gioco di scacchi che ancora abbiamo a casa».E in un ricostruito dialogo telefonico con Dino Risi, quest’ultimo mette Andreotti nel pantheon dei grandi italiani insieme a Leonardo da Vinci, Garibaldi e Federico Fellini. Dimostra in fondo l’affetto del cinema italiano per suo padre.«È vero. E proprio con Fellini era nata una bellissima amicizia. Papà conservava tanti suoi disegni, tra cui una divertente caricatura. E poi il fatto che anche il presidente dell’Agis, Italo Gemini, sia stato uno dei suoi migliori amici, è stato il motivo per cui gran parte del mondo del cinema non lo dimenticasse e lo rispettasse. A piazza di Montecitorio c’era una saletta privata e con lui papà andava tutte le domeniche a vedere film, questo è stato il suo modo per tenersi aggiornato sul cinema. E poi c’era la televisione: o si vedevano le partite della Roma o i film, soprattutto i thriller, perché era appassionato di letteratura poliziesca, o quelli dalla comicità garbata. Gli piaceva moltissimo Totò».Nonostante la battuta famosa del «pesce democristiano», scagliata da Totò in “Fifa e arena” contro un pesce che in un acquario copre le nudità di Isa Barzizza?«Le racconto un episodio che pochi conoscono. Si incontrarono in uno scompartimento di un vagone letto. Totò disse a papà, che lo elogiava: «Io sono sopravvalutato, soprattutto per le tasse». Ne venne fuori una vera sceneggiata. Ridevano insieme. Papà si sapeva divertire, con riservatezza».
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