martedì 26 agosto 2014
Sei anni fa i peggiori attacchi, con 96 vittime e quasi 60mila profughi. Giustizia ancora negata. E minacce indù sempre crescenti.
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​La vita di Pramod è ancora quella del profugo sulla sua stessa terra, nello Stato di Orissa dove sei anni fa gli estremisti indù scatenarono la peggiore persecuzione anticristiana della storia del Paese. Gli indù maggioritari nel villaggio di Betticola, nel distretto di Kandhamal, continuano a minacciare i cristiani di morte se torneranno senza convertirsi all’induismo. Così Pramod resta con altre migliaia di battezzati in un centro per sfollati alla periferia della capitale dello Stato, Bhubaneswar, non solo in condizioni precarie, ma ancor più senza alcuna prospettiva per il futuro se non quella rinchiusa nell’orizzonte ristretto del campo o di quella più aperta ma incognita dell’emigrante.
La giornata di ieri è stata contrassegnata da diverse manifestazioni in tutto il Paese, organizzate non solo da cattolici e protestanti, ma da diverse organizzazioni per i diritti umani, di tutela delle minoranze e per la legalità. La maggior parte delle vittime stanno ancora aspettando che sia fatta giustizia nei loro confronti e che siano riconosciuti il diritto alla sicurezza e a adeguati risarcimenti. Nei fatti, il sistema giudiziario indiano è venuto meno ai suoi principi basilari, e se i testimoni sono costantemente intimiditi con minacce e azioni dimostrative, come pure le vittime e quante le sostengono, i colpevoli restano liberi di vivere e agire nella regione in cui hanno compiuto i crimini.
La serie di violenze attuate dal 25 agosto 2008, attentamente pianificate ed eseguite con l’apporto di estremisti organizzati localmente ma provenienti anche dall’esterno del distretto di Kandhamal, il più colpito, e dell’Orissa, fecero una novantina di morti, centinaia di feriti, vaste devastazioni di proprietà e luoghi di culto. Un flusso di 56mila profughi invase i pochi campi di raccolta allestiti con il contributo determinante della Chiesa cattolica e di organizzazioni caritative, in aree anche distanti dall’epicentro della persecuzione. Da allora, la propaganda dell’induismo militante ha insieme cercato di accreditare la tesi della provocazione, sotto forma dell’assassinio due giorni prima, di un controverso leader indù e di quattro seguaci nella stessa regione (nonostante la guerriglia maoista se ne sia attribuita pubblicamente la responsabilità), ma anche l’immagine di tolleranza e inclusività che si vorrebbe eredità della sua storia plurimillenaria.
Tuttavia, come sottolinea il giornalista indiano Anto Akkara collaboratore anche di Avvenire, che alla persecuzione ha dedicato libri, molti articoli e un impegno per portare in Parlamento il dibattito sulla giustizia negata in Orissa e la sicurezza delle minoranze, gli eventi di sei anni fa e le loro conseguenze hanno mostrato i limiti del volto più aperto dell’induismo. «I nazionalisti indù e i loro seguaci hanno macchiato l’immagine di una fede proposta come tollerante». Di fatto, gli eventi del Kandhamal hanno mostrato due tipi di indù: quelli che si proclamano campioni della fede, pronti a usare ogni mezzo a questo scopo, e quelli che sono rimasti semplicemente passivi. Sono stati altri che con interventi tempestivi e decisi hanno salvato molti cristiani assediati. Ci sono testimonianze di diverse famiglie indù che hanno offerto rifugio ai cristiani e anche di alcuni i quali hanno avuto il coraggio di schierarsi con i cristiani sotto attacco. Due, addirittura, Dasrath Pradhan di Tiangia e Sidheswar Pradhan di Sulesaru, hanno sacrificato le loro vite per proteggere i cristiani, testimoniando fino all’estremo la difesa del nobile principio della non-violenza.
Un principio che l’induismo radicale – che da maggio ha una rappresentanza ai massimi livelli politici dopo la vittoria del Bharatiya Janata Party alle elezioni di primavera e l’ascesa a capo del governo nazionale di Narendra Modi – non ha mai in cima alle priorità, mentre cerca di accreditarsi come espressione di tutti gli indiani, riaccende la polemica sulla legittimità dei gruppi filo-induisti a guidare il Paese. Solo il 17 agosto, Mohan Bhagwat, leader del Rashtriya Swayamsevak Sangh (Associazione dei volontari nazionali), uno dei movimenti dell’induismo radicale, proprio in Orissa, a Cuttack, ha rilanciato il concetto di hinduttva (induità) come base della stessa identità nazionale dell’India. «L’Hindustan (India) è una nazione indù, di cui l’hinduttva è l’identità e dove l’induismo può incorporare ogni altra fede», ha affermato Bhagwat, riprendendo quello che è uno degli elementi essenziali della propaganda induista, ovvero la coincidenza tra appartenenza territoriale, cultura e tradizione religiosa.Attorno a Ferragosto, la vicenda del Kandhamal è stata portata in Parlamento, insieme alle preoccupazioni dei cristiani e dei tribali locali, proprio con il contributo di Akkara. Che cosa ci si attende da questa iniziativa? «Per anni ho cercato di sensibilizzare a livello nazionale sulle frodi e la giustizia negata in Kandhamal – dice il giornalista e scrittore cattolico –. Alla ricerca di testimoni credibili sono più volte arrivato a informazioni sconvolgenti. In questa ricerca mi sono coordinato con Digvijay Singh, uno dei leader del Partito dl Congresso (oggi all’opposizione), in quanto lo ritengo un alleato affidabile a contrastare le bugie e le azioni dei nazionalisti espresse con chiarezza nel volume Orissa in Cross Fire (Orissa tra due fuochi) degli autori statunitensi Michael e Barnon Parker pubblicato da una fantomatica India Foundation. Una serie di menzogne e calunnie che si accumula anche per l’autocensura di tanti organi d’informazione, i quali esitano a mettere in cattiva luce il nuovo governo a guida nazionalista».
Per quale ragione un giornalista, seppure cattolico, si è messo su una linea di impegno che porta inevitabilmente in contrasto con l’induismo settario e gli interessi economici e politici ad esso legati? «Quasi per caso, dopo essere stato inviato in Kandhamal da media stranieri con cui collaboravo, e per un personale senso di giustizia. Nel Natale 2008, ad esempio, mi sono trovato in disaccordo con il responsabile dell’amministrazione in Kandhamal sui dati ufficiali delle vittime: 32 i morti per il governo che contrastavano con la lista di 75 stilata dalla Chiesa locale, vittime di cui io avevo incontrato in molti casi le famiglie, ottenendone testimonianze dirette. Le autorità rifiutarono di riaprire i casi che erano stati indicati come decessi accidentali e di procedere con pratiche per omicidio. Questo fu lo spunto per il mio primo libro –Kandhamal: A blot on Indian Secularism – ma da allora ho continuato a indagare e a trovare sempre più contraddizioni, coperture, errori e opportune amnesie. Davanti al cardinale Francesco Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, nel giubileo d’argento della Conferenza episcopale cattolica dell’India nel 2013, alla presentazione del mio secondo volume, Early Christians of 21st Century (I primi cristiani del XXI secolo), ho spiegato che la mia presenza in quell’occasione non era motivata da quanto avevo scritto, ma perché i cristiani del Kandhamal si sono dimostrati i più fedeli testimoni di Cristo in duemila anni di presenza cattolica in India. Quando è stato chiesto loro di rigettare la propria fede, hanno sacrificato ogni cosa e a decine anche la loro vita, ripercorrendo in un certo senso il cammino dei primi cristiani».«Io ho solo sacrificato tempo e risorse in 18 viaggi fatti nel Kandhamal (ma anche altrove) – conclude Akkara –  perché credo nel compito dei media di dare voce a chi non ce l’ha e perché credo che la fede richieda sacrificio».
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