sabato 12 luglio 2014
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​Dalla visita di Papa Francesco in Terra Santa, proprio nelle zone dove ora sembra che la violenza abbia campo libero, è trascorso un mese e mezzo; anche meno dall’«invocazione per la pace» nei Giardini Vaticani l’8 giugno, protagonisti i leader palestinese Abu Mazen e israeliano, l’ormai ex presidente Shimon Peres. Quelle immagini e quelle parole, rilette avendo davanti agli occhi le scene di fuoco e di sangue di questi giorni, sembra appartengano a un passato remoto. È stata dunque solo un’illusione? No, rispondono in coro tre testimoni diretti degli eventi di quei giorni. Interpellati da Avvenire, padre Davide Nehaus (gesuita, vicario del Patriarcato latino di Gerusalemme), il rabbino Abraham Skorka (amico del Papa, che ha accompagnato in Terra Santa) e il gran muftì di Betlemme Abd Al-Majeed Ata testimoniano che il seme della pace è stato gettato nel cuore dei leader, che la preghiera in Vaticano ha indicato un metodo, e che la violenza agli uomini religiosi – da qualunque parte stiano – non può che ripugnare come metodo di risoluzione delle diatribe. Neuhaus spiega con realismo che purtroppo «gli scontri convengono a tanti», Skorka sottolinea che il Papa «ha mostrato ciò che si deve fare» per uscire anche da questa drammatica situazione, mentre il muftì si dice profondamente addolorato «che le violenze avvengano nel mese di Ramadan». Le interviste e gli approfondimenti su Avvenire di domenica 13 luglio.
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