venerdì 28 dicembre 2012
​In Trentino e in Alto Adige i primi gruppi per curare i maschi offender: una pratica da noi rara, in Europa prevista per legge. Cicli di sei mesi con 28 incontri: alla fine il successo nel 75% dei casi di Lucia Bellaspiga
Don Corsi: vado in vacanza, cerco il silenzio 
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​La media, anche in questo 2012 ormai agli sgoccioli, resta la stessa: una donna uccisa ogni due giorni, e uccisa "in quanto donna". Non diminuiscono nemmeno gli altri tipi di violenza rivolti "alle donne in quanto donne", dalla molestia, allo stupro, alla discriminazione, alla vessazione, allo stalking. «Voleva lasciarmi», è la giustificazione addotta nella maggior parte dei casi dall’uomo che, di fronte all’abbandono (vero o presunto), non discute, non razionalizza, non ne è capace, così perde la testa e ricorre alla violenza. Lo stesso meccanismo istintuale che si scatena in alcune menti fragili di fronte a una donna vista solo come corpo, dunque come preda. Sia che abbia un atteggiamento provocante, sia che non lo abbia affatto ma così venga vista dal suo sguardo, come attraverso uno specchio deformante.«Se queste sono le cifre, è ovvio che continuare a soccorrere le vittime non basta: occorre aiutare i maschi violenti, perché cambiare si può», spiega Michela Bonora, 26 anni, tra i pochissimi esperti in Italia di strategie antiviolenza. Con il collega Massimo Mery ha importato il metodo europeo contro la "violenza di genere", conducendo in collaborazione con la Caritas a Bolzano e con il Comune a Rovereto (Trento) i gruppi di rieducazione che in Italia restano un’eccezione, ma all’estero sono previsti per legge in alternativa alla pena. A volte a mandarle i "pazienti" è il Tribunale, altre sono i servizi sociali, più raramente a presentarsi è lo stesso "offender", intenzionato a smettere. Ogni gruppo è formato da dodici persone e dura sei mesi, con 28 incontri settimanali, che alla fine danno un buon 75% di successi. «Il primo dei quattro obiettivi che devono raggiungere è la definizione di violenza», sottolinea Michela Bonora, perché chi con la donna "parla" a pugni e schiaffi, o anche "solo" chi per anni la tiene soggiogata con urla che incutono terrore (il classico padre/marito padrone) «molte volte ritiene di non essere affatto violento. Vediamo uomini che definiscono "bisticci" delle vere vessazioni». Il secondo punto – l’assunzione di responsabilità – è fondamentale, perché insegna a non rispondere alle (vere o presunte) provocazioni con un istinto bestiale: «Tutti i nostri uomini, persino di fronte a fatti oggettivi come una condanna del Tribunale o un referto medico della propria vittima, immancabilmente cercano giustificazioni. Così come accade spesso dopo lo stupro o la molestia: "lei mi provocava"... In genere minimizzano l’accaduto, o lo negano completamente, o molto più spesso danno a lei la colpa attribuendole qualche comportamento a loro parere scatenante». Perché l’offender cambi, occorre scardinare questi meccanismi di difesa, far comprendere che anche davanti all’eventuale provocazione ogni uomo ha la possibilità di scelta, può sempre «raffinare il collegamento che c’è tra il nostro corpo (l’istinto) e il pensiero», cioè agire in modo razionale. Dopo quasi due anni di sperimentazione (hanno già condotto quattro cicli di sei mesi ciascuno e ora stanno per inaugurare il quinto), i due esperti confermano che nella maggior parte dei casi la prevaricazione deriva dalla fragilità: tradizionalmente nella nostra cultura al maschio non è consentito piangere o avere paura, fin da bambino gli si negano le lacrime dicendogli «sei un uomo», ma questo alla lunga può provocare un blocco delle emozioni, così, non potendo utilizzare quei canali, usa l’unico cui si sente legittimate, che è la rabbia. «Ecco perché il quarto obiettivo è il riconoscimento di poter provare tutta la gamma di emozioni, anche la paura dell’abbandono, che è la causa più scatenante di omicidi». E quella di poter "patire" (nel senso etimologico di "sentire") è una scoperta liberatoria, che spalanca loro un nuovo mondo. Così come la consapevolezza di poter gestire, attraverso tecniche apprese in gruppo, ogni pulsione negativa.Ma che dire, in definitiva, dell’atteggiamento di donne che amano vestirsi o atteggiarsi in modo facilmente fraintendibile o provocante? Possono indurre in tentazione e quindi istigare a comportamenti sbagliati? I due discorsi vanno tenuti assolutamente separati, perché mai e in nessun modo una cosa può diventare alibi o giustificazione per l’altra, «altrimenti si cade nell’errore dei nostri uomini che, incapaci di vedere la loro responsabilità, dicono "ma lei ha detto", "ma lei ha fatto"». La vera domanda, al più, è: perché alcune ragazze hanno bisogno di esibirsi in questo modo? Di considerare così il loro corpo? Perché offrono una tale immagine - prima a se stesse che agli altri - della loro femminilità? Questo andrebbe sondato. «Io lavoro con gli uomini per far capire che certe donne non sono un prototipo realistico, ma lo stesso ragionamento va fatto anche nel femminile, a ragazzine o donne adulte che si dicono contrarie alla strumentalizzazione del loro corpo. Ma poi cadono nello stesso tranello».
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