giovedì 2 luglio 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
​«Cambiamento per mezzo dell’avvicinamento». Lo slogan di Willy Brandt è passato alla storia come Ostpolik, ovvero la politica applicata dalla Germania Ovest nei confronti di quella parte di Paese imprigionata dal muro e dell’Est comunista. Vari analisti l’hanno paragonata all’attuale “dottrina Obama” verso Cuba e, pur con le debite distinzioni, Iran. Una simile impostazione si legge tra le righe anche nel discorso pronunciato ieri dal leader Usa nel Giardino delle Rose. Nell’annunciare la riapertura delle rispettive ambasciate a Washington e L’Avana, il capo della Casa Bianca ha fatto un accenno ai diritti umani, per rispondere indirettamente a quanti – per lo più sul fronte repubblicano – lo accusano di legittimare un regime autoritario. Le divergenze su prerogative individuali e libertà – ha precisato – «sono molto serie». «Credo, però, fortemente che il miglior modo per gli americani di diffondere i propri valori sia il dialogo», ha sostenuto. I diritti umani non rientrano nell’agenda negoziale Usa-Cuba. Eppure, Obama punta sull’“effetto contagio” per prossimità. Geografica – a dividere le due nazioni è un braccio di mare di 130 chilometri – e culturale. Il motore del cambiamento sarebbe non un esplicito accordo, bensì il flusso di affari e turisti, già cominciato. Questi ultimi dovrebbero, dunque, impedire a Cuba di trasformarsi in una piccola Cina caraibica. Accadrà davvero?L’interrogativo resta aperto. In primo luogo per i cubani. Esclusa l’ala dura, la maggioranza dei dissidenti, in patria e all’estero, crede in una possibile “democratizzazione progressiva per diffusione”. La Chiesa cubana lavora da decenni proprio per promuovere spazi di dialogo e confronto fra la società civile. Ne sono un esempio, la rivista arcidiocesana dell’Avana Palabra Nueva, che promuove dibattiti sui temi più svariati, o il centro culturale “Félix Varela”, punti di riferimento ormai per credenti e non credenti a cui sono precluse altre occasioni di dialogo costruttivo. Piccoli laboratori di democrazia sono, dunque, già attivi. La vera incognita è quanto Raúl Castro e il suo entourage siano consapevoli dei possibili effetti collaterali del nuovo corso. Certo, il presidente si è impegnato a lasciare nel 2018. Ma rinuncerà anche a imporre un erede? O, dato il vuoto intorno, il cambiamento è, anche per lui, l’unico antidoto al tracollo?
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: