mercoledì 24 aprile 2024
Il delitto Passarella, attribuito ai fascisti, fu invece commesso da balordi entrati per convenienza nelle “Fiamme verdi” cattoliche. La nipote Anna Maria Catano rompe un tabù anche familiare
Franco Passarella, il partigiano liceale

Franco Passarella, il partigiano liceale - archivio

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È un caso scomodo per la Resistenza quello di Franco Passarella, il partigiano liceale, ucciso in Val Camonica il 25 giugno 1944. Aveva 18 anni, l’esame di maturità sostenuto da pochi giorni, un desiderio insopprimibile di unirsi ai “ribelli per amore”, la Divina Commedia nello zaino. Ma la sua battaglia non dura che pochi giorni. A Brescia, sulla facciata del palazzo dove abitava, per settant’anni una lapide ha recitato: «Alla libertà offrendo il proprio martirio Franco Passarella da questa casa partì il 19 giugno 1944. La ferocia fascista lo colse». Ma non è vero. Fascisti e nazisti non c’entrano nulla con la sua morte. E non fu neppure colpito, come poi cercò di raccontare per decenni l’Anpi, “da fuoco amico”. Franco viene assassinato da una pattuglia infedele di “Fiamme Verdi”, i partigiani cattolici. Quattro sbandati noti come banda di Solato, che di cattolico naturalmente non hanno nulla e che hanno aderito alla Resistenza solo per dare copertura alla loro vita criminale di agguati, ruberie e soprusi.

Perché uccidono a freddo un ragazzino che arriva direttamente dall’Oratorio della Pace di Brescia e che racconta loro di voler combattere contro il nemico invasore? Forse per rubargli gli scarponi nuovi e la giacca da montagna. Forse solo per crudeltà. Forse per altri motivi che non sappiamo. È un mistero che gli storici non sono ancora riusciti a risolvere e, a guardare bene, non si tratta dell’unico aspetto che non torna in questa vicenda. Il dato più fastidioso è forse la lunga congiura del silenzio, le omertà, i depistaggi che per lunghi decenni hanno tentato di coprire gli autori dell’omicidio. Quasi che una superiore “ragion di Stato partigiana” avesse imposto una verità di comodo per non gettare ombre sulla lotta partigiana.

Tentativo tanto ingenuo quanto ipocrita perché muove da un convincimento sbagliato. L’illusione, cioè che nell’atroce guerra civile che insanguinò l’Italia dall’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45, si possa tracciare una linea netta di demarcazione, da una parte solo buoni, nobili e generosi. Dall’altra solo infami e assassini. Non fu così, perché la vita non è così. E tantomeno la guerra. E raccontare che nelle bande partigiane si nascondevano anche personaggi ignobili, capaci di gesti crudeli come quello di cui fu vittima il giovanissimo Franco, non significa denigrare la Resistenza, ma contribuire a renderla più vera e più credibile, liberandola da sovrastrutture retoriche e da mitologie inutili e fastidiose.

Il libro scritto dalla giornalista Anna Maria CatanoIl partigiano tradito (San Paolo, pagine 146, euro 20,00) con la prefazione del vescovo emerito di Palestrina, Domenico Sigalini, di origini bresciane, e introduzione dello storico Mimmo Franzinelli - va proprio nella direzione di restituire ai fatti il loro valore, senza mistificazioni o cautele improntate al politicamente corretto. L’autrice ha un motivo in più per farlo. È nipote del partigiano assassinato e per tanti anni è stata lei stessa vittima, anche nella sua famiglia, di questa congiura del “non detto”. Non una parola in casa, per tanti anni. Mai un accenno alle circostanze in cui morì lo zio.

Un silenzio che ha alimentato il suo desiderio di sapere e poi la passione, in alcuni passaggi anche la rabbia, con cui ha scritto queste pagine. Sentimenti che non hanno offuscato però il rigore con cui ha messo in fila i fatti, ha fatto parlare i testimoni, ha ridato vita ad episodi che altrimenti sarebbero rimasti sepolti in una memoria collettiva più interessata a nascondere che a rivelare le circostanze di quanto successo. “In Val Canonica lo sapevano tutti… le testimonianze raccolte fra i borghi camuni confermano che la banda di Solato era arcinota in vallata”. Ma anche alla fine della guerra, quando ormai la storia ha emanato il suo verdetto senza appello, tutti preferiscono tacere. Catano spiega, sulla base di documenti consultati presso l’Anpi di Brescia, come sia potuto accadere che quattro sbandati ben noti per la loro ferocia e arroganza, abbiano potuto agire indisturbati per mesi e macchiarsi di delitti atroci.

Solo nell’autunno del ’44, alcuni mesi dopo la morte del partigiano-ragazzino, le Fiamme Verdi bresciane si organizzano e costituiscono una struttura gerarchica. E infatti a questo punto la banda di Solato si scioglie e i suoi componenti entrano in altre formazioni. Il capo, Buno Pe, quello che ha sparato a freddo al partigiano liceale, va addirittura a lavorare per i nazisti dell’Organizzazione Todt, impegnata a costruire ponti e strade per la Wehrmacht. Tanto per definire la caratura morale del figuro. Oggi di Franco Passarella rimane una via intitolata a Brescia e una calle a Venezia, sull’isola di Sant’Elena, in memoria delle origini della famiglia. Oltre a un sentiero alpino, a Pisogne, sponda orientale del lago d’Iseo. Ma soprattutto rimane la volontà di non dimenticare il suo gesto di adolescente generoso, deciso a combattere la dittatura fascista e l’occupazione nazista.

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