venerdì 3 maggio 2024
La città marocchina fu ridisegnata a metà Settecento da un architetto francese, prigioniero del sultano. Punto di incontro di popoli, è stata a lungo esempio di convivenza tra musulmani ed ebrei
La Medina di Essaouira

La Medina di Essaouira - Pete Bread / Unsplash

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Vi sono città gelose della propria identità, come possono esserlo certe persone. Essaouira al contrario è estroversa e ti rivela subito la sua, che è dolce e conciliante come il color pesca delle mura che circondano la Medina, o come il suo nome, che la doppia sibilante nel viluppo di vocali rende suadente.

Per chi arriva e ha negli occhi il paesaggio arido dell’interno il mare è il primo richiamo, e per vederlo si fa una prima scoperta importante. La Medina è il cuore antico della città marocchina e di solito sta al centro della parte moderna che col tempo le è cresciuta intorno. A Essaouira invece è protesa verso il mare che la circonda per tre lati, e difesa da fortificazioni imponenti. Bisogna perciò salire al bastione nord, che delimita la Skala de la Kasbah, una lunga piattaforma merlata che conserva ancora i grossi cannoni di bronzo, sottratti nei secoli alle navi spagnole. Ci si affaccia a una fenditura, a osservare e ascoltare le onde che si frangono spumeggiando sulle scogliere sottostanti, e con lo sguardo rivolto all’orizzonte si può provare un’emozione infantile nel commisurare la vastità dell’oceano, migliaia di chilometri, e pensare che dall’altra parte c’è l’America.

Una via stretta e scura porta verso il bastione ovest, e poi staccata dalle mura c’è l’ultima difesa, un torrione quadrato noto anche perché fu un set dell’Otello girato da Orson Welles nel 1951. Dalla sua cima si ha la vista più suggestiva della Medina, che per quanto sfruttata sprigiona intatta la sua forza. I bastioni sferzati dalle onde, le mura e dietro l’agglomerato di case imbiancate a calce con gli infissi azzurri, evocano immagini di avvistamenti, vele di corsari e avventure romanzesche.

Sull’altro versante il torrione domina il porto, proteso a forma di chela di granchio verso sud, ed è un altro forte richiamo di suoni e odori. I gabbiani che lo affollano si gettano con grida convulse sugli scarti del pesce pulito e venduto lungo i moli. Si aggirano disinvolti fra la gente come animali domestici, come i gatti che hanno nella Medina una colonia benvoluta e vastissima.

Essaouira era scalo ambito già per fenici e cartaginesi. Se ne servirono i portoghesi nella prima metà del ‘500, poi scalzati dall’avanzata musulmana. Un secolo dopo sarebbe diventata “il porto di Timbuctù”, approdo delle carovane che attraversavano il deserto col loro carico di merci fiabesche, stoffe preziose, avorio, piume di struzzo. Un flusso interrotto dopo il 1912, quando il protettorato francese spostò l’asse dei traffici su Agadir, Tangeri e Casablanca.

Ma ora è la Medina che chiama, e rivela un altro tratto di originalità. Non presenta il tipico dedalo di viuzze contorte, ma i varchi ampi e diritti di una pianta ortogonale, in cui le due strade principali si incrociano con altre ad angolo retto, e dietro c’è una storia.

Corre l’anno 1764 quando il sultano Sidi Mohammed ben Abdallah vuole rifondare Essaouira e affida il progetto a un architetto francese, Théodore Cornut, rapito dai pirati con altri cento cristiani, in cambio della libertà. Il risultato, una fusione di stile marocchino ed europeo ben visibile anche oggi, lo soddisfa tanto da cambiare l’antico nome di Mogador, in arabo “ben custodita”, in Essaouira, “la ben disegnata”.

L’ingresso della Medina è una via larga quanto una piazza, bazar ininterrotto di merci rivolte ai turisti. Calzature, abiti e tappeti, oggetti che vorrebbero spacciarsi per artigianato locale ma sono prodotti in serie molto lontano da qui. Anche in questo contesto artefatto però il modo in cui sono offerti è rimasto quello tradizionale. Non ci sono vetrine o interni, la merce si può guardare da vicino e toccare, e riguardo alla contrattazione, al di là dei luoghi comuni, sono ancora illuminanti le note di Elias Canetti, che soggiornò da queste parti negli anni ‘50. Il venditore è il solo a conoscere il valore preciso della propria merce, e lo tiene segreto, il che conferisce alla trattativa un carattere avvincente e imprevedibile. Il prezzo dichiarato per primo è un enigma, che muta in base al cliente e al momento. Il venditore ricorre ad argomenti contorti ed eccitanti, divaga per un tempo che tende a durare “una piccola eternità”, e al momento di pagare non lascia intendere se ad aver fatto un affare sia il compratore o più verosimilmente lui.

Il suk di Essaouira

Il suk di Essaouira - Unsplash

Più avanti però ecco uno scarto brusco. Oltrepassata la Bab Moulay Youssef (Bab significa porta e nella Medina ce ne sono tante), la via si restringe e diventa teatro della vita locale, con vendita di cibi, oggetti di uso comune oltre a una quantità di ciabatte, scarpe e abbigliamento con marchi occidentali contraffatti, per una sorta di contrappasso venduti alla gente del luogo.

Sembrano risuonare con maggior forza qui le voci dei muezzin, diffuse a orari fissi dagli altoparlanti, che contengono insieme richiamo veemente, lamento e preghiera. Molti anziani indossano la djellàba, mentre i giovani vestono per lo più in felpa e jeans. Le donne sono tutte velate, anche se tengono a dirti che non è un obbligo, e qualcuna porta il burka. La varietà dei tratti somatici è sorprendente e rimanda alla lunga tradizione di Essaouira come confine e punto di incontro fra i due nuclei generatori della civiltà marocchina, in particolare per due gruppi: gli arabi chiadma a nord e i berberi haha a sud. A questo vanno aggiunti gli gnawa, anch’essi provenienti da sud, e i neri discendenti dagli schiavi che un tempo lavoravano nelle piantagioni di canna da zucchero. Fra architetture e fisionomie, dietro la sua immediatezza Essaouira rivela di avere più di un’anima, e un’identità multiforme. Ne è portatrice anche la cultura, a cominciare dal festival internazionale della musica gnawa, che si svolge ogni primavera con concerti e performance per le strade. Una musica sincopata in cui le qraqueb, grandi nacchere di metallo, scandiscono il ritmo di una danza frenetica che tende al parossismo e alla trance, e in origine esprimeva il sentimento dei neri condotti in Marocco, destinati al viaggio verso la schiavitù.

Sui fianchi della via si aprono i cortili e i passaggi stretti dei suq, fra profumi di spezie mescolati a quelli acri dei polli chiusi nelle gabbie, o del pesce pulito sui banchi circondati dai gatti. Ci sono banchi stracolmi di ortaggi e frutta, ma vedi anche la donna seduta tutto il giorno dietro un cassetta di cipolle, o l’uomo che fa lo stesso con un cesto di erbe. Il loro aspetto è dimesso ma lo sguardo tranquillo, come quello del sarto che cuce nella penombra di un laboratorio minuscolo. Sembrano ancora alieni dallo spirito capitalista e che gli basti andare avanti col poco che hanno, senza voler diventare imprenditori di sé stessi per ottenere un maggior profitto e benessere. E a parte i giudizi e i confronti, incutono un rispetto profondo.

Si scopre poi che l’ordine delle strade principali tagliate ad angolo retto è limitato e ingannevole. Chi imbocca sicuro una laterale può perdersi lungo serpentine anguste e ritrovarsi in un vicolo cieco, ancora di più inoltrandosi nella Mellah, l’antico quartiere ebraico, semi disabitato e molto malmesso dopo che i suoi abitanti lo hanno abbandonato a metà del secolo scorso per trasferirsi in Israele.

Basta però girare un angolo, attraversare una piazzetta, per ritrovarsi nelle vie più battute e affollate di turisti. Sono stati i mondiali di calcio in Qatar ad aumentarne nell’ultimo anno l’afflusso. L’approdo del Marocco alle semifinali ha suscitato orgoglio ed entusiasmo fra la gente, che si leggono ancora nella fierezza con cui i piccoli calciatori sulla spiaggia indossano la maglietta rossa della loro nazionale. E ha sollevato in tutto il mondo un’ondata di simpatia per questo paese, tradotta nella sua scoperta come meta di vacanze.

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Questo nuovo impulso turistico ha avuto un forte impatto anche sul tessuto sociale. Qui come a Marrakech è arrivato un gran numero di giovani fra i venti e i trent’anni, in particolare dal sud, da città come Touama, Agdez e Arfoud, dove non c’è lavoro, occupati in ristoranti e alberghi, nei riad ricavati dalle case abbandonate, e nell’indotto che ne deriva. Imparano le lingue straniere. Acquistano nuovi ruoli dentro una comunità che appare fortemente interconnessa, in cui dal bambino all’anziano ognuno sembra avere un proprio posto definito da vincoli e tutele. Capita di frequente, e ancora di più durante il Ramadan, di vedere vecchi indigenti accostarsi all’ingresso di un ristorante e attendere con fiducia il gestore, che viene a portargli il cibo per la cena.

Il turismo porta benefici economici e insieme rischi di stravolgimento e omologazione, ma Essaouira è stata attraversata da tante correnti e sembra capace di assorbire anche questa senza scomporsi troppo. Fra i bastioni che la difendono ce n’è uno naturale e sono gli alisei, che soffiano impetuosi per gran parte dell’anno e spingono altrove i bagnanti in cerca di spiagge. Uno dei suoi numerosi nomi e appellativi è quello di “città del vento”.

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