sabato 4 maggio 2024
L'ingresso nel mondo ellenistico mette di fronte il Popolo eletto alla necessità di elaborare in modo culturalmente nuovo la sua fedeltà all'Alleanza. L'esito è poetico: dai Salmi a Giobbe a Qoelet
Una miniatura con Giobbe deriso dalla moglie

Una miniatura con Giobbe deriso dalla moglie

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Pubblichiamo alcune pagine del nuovo libro di Giuliano Zanchi, La vita sotto il cielo. Figure e temi della sapienza biblica (Vita e Pensiero, pagine 136, euro 15,00), in cui il teologo ripercorre le storie, le emozioni, i sentimenti di donne e uomini protagonisti dei libri sapienziali: Giobbe, Salmi, Proverbi, Qoelet, Cantico dei Cantici, Sapienza, Siracide.

Nel 323 a.C. muore Alessandro Magno. In pochissimi anni ha conquistato mezzo mondo, lasciando un impero che non è impressionante solo per la sua vastità, ma soprattutto per l’audacia, gravida di conseguenze, con cui congiunge in una sola grandezza politica due pianeti culturali completamente diversi, l’Occidente della vecchia Grecia classica e l’Oriente dell’impero persiano. Politicamente disintegrato subito dopo la morte del grande condottiero, questo grande insieme lascia in eredità una fascinosa nebulosa di relazioni che prepara il terreno al futuro impero di Roma, e anima i caratteri della prima cultura globalizzata della storia umana.

Razionalismo e spiritualismo sono forse due categorie troppo vaghe, e forse anche troppo moderne, ma danno bene l’idea delle correnti che in quell’epoca hanno cominciato a miscelarsi, animando flussi e controflussi che continuano a far parte della nostra cultura. In ogni caso, è dentro questa globalizzazione dello spirito e della ragione, che tutto un mondo ebraico della diaspora si trova a elaborare culturalmente quello che per la tradizione dell’Alleanza continua a essere essenziale, ma che tutto un sistema circostante mette alla prova con diverse sensibilità, nuovi paradigmi e domande inedite.

Uscito dal recinto del suo nazionalismo profetico, Israele si trova immerso in visioni della realtà che impongono di riformulare in chiave più universale un credo che era rimasto protetto nelle sue categorie etniche. Panorami vasti rivelano punti di vista più ampi. Ma non si tratta di assimilare passivamente un sistema di valori da prendere così come è, come fosse un destino da subire; si tratta di un confronto più complesso, che comporta due atteggiamenti apparentemente antitetici. In uno si tratta di mantenere la distanza critica rispetto a un “ottimismo della conoscenza” che la filosofia greca divulga come una specie di scienza esatta della virtù, un intellettualismo di sistema con cui si pretende di poter padroneggiare la vita, lasciando il divino sullo sfondo dell’epos e delle tragedie, di miti e riti ormai ritenuti dimensioni superate. In questa “scienza” dei greci, Israele vede una presunzione dalla quale occorre guardarsi.

Nell’altro atteggiamento si tratta dell’inevitabile onere di rendere significativi i termini della fede nell’involucro di una lingua universale che ha pur sempre le sue ragioni, quelle che si esprimono parlando degli elementi base della vita, l’amore, il dolore, il lavoro, la giovinezza, la vecchiaia, il linguaggio, il sesso, i figli, il potere, e la giustizia che queste esperienze richiedono, per loro natura intrinseca, soprattutto nelle loro contraddizioni. L’involucro di una lingua universale, del resto, non agisce come un contenitore neutro, ma porta già con sé stratificazioni di senso che conferiscono freschezza e novità anche alla lingua della fede.

È in questo contesto di obbligato confronto culturale che, tra il V e III secolo a.C., Israele produce una sua sapienza, dando forma a un genere letterario innovativo e poetico, che si serve in abbondanza di precedenti materiali orali e preletterari, imprimendovi però una visione più aggiornata, e confezionandoli in scritti che riflettono lo sguardo e i bisogni di un’epoca nuova. Il lettore è subito colpito dalle differenze che separano, dal punto di vista dei contenuti narrativi, questa letteratura sapienziale dalle forme letterarie di ciò che la precede nell’ordine del Primo Testamento: leggi, testi cultuali, narrazioni storiche, oracoli profetici. Il cambio di registro è evidente e quasi radicale. I grandi lemmi della tradizionale dottrina religiosa non compaiono più, non perché non siano più importanti, ma perché non possono più essere creduti se non sciolti nella pasta della vita.

Non si parla quasi più della Legge, del Sacerdozio, del Sacrificio, del Tempio, del Culto, intanto perché nella situazione ormai stabilizzata della diaspora nel mondo non sono più disponibili nella loro forma tradizionale, e il loro senso è stato rifuso in una spiritualità e una liturgia di carattere familiare; e quindi perché il loro compito di preservare il senso di un’Alleanza originaria deve agire al livello secolare della quotidianità. Se esistesse già il vocabolario paolino, si direbbe che, già a partire da questo nuovo mondo letterario, quella antica costellazione in cui Legge, Sacrificio, Sacerdozio, Tempio compongono un insieme organico si rifonde nella forma di un culto spirituale. La Legge indossa gli abiti comuni della sapienza, e il culto entra nella dimensione concreta dell’esistenza. Persino l’antica e fondatrice memoria dell’Esodo sembra essere dimenticata, ma solo perché – e Israele lo ha capito a proprie spese – anche il più piccolo atteggiamento ha già il valore del Mar Rosso, ed è un passaggio che fa la differenza. A ogni passo la vita sembra mettere di fronte allo scarto di un’alternativa, in cui può incidersi la crepa che apre il divario abissale tra la vita e la morte.

(...) Se i profeti custodiscono il punto irradiante della Rivelazione, i sapienti la mettono alla prova della realtà. Lo fanno nel tempo in cui gli eventi hanno mutato il paesaggio. I profeti agivano ancora all’epoca della monarchia, dove Israele poteva immaginarsi come isolato custode di una religione preservata nel guscio dell’unità politica. Ma all’incirca tre secoli prima di Cristo, Israele è solo una provincia secondaria assorbita in un sistema politico esteso, porzione trascurabile del grande insieme ellenistico. Siamo dunque in un mondo dove ormai si parla greco, seppure ciascuno a suo modo, e quello che accomuna tutti sono le dimensioni elementari della vita. Nel vasto contesto di un tale gigantesco open space culturale, la tradizione biblica estrae dal suo cilindro il felice atteggiamento dello sguardo sapienziale e l’incanto nuovo della sua letteratura. Esso serve a mantenere la Rivelazione vicina alla vita, e a portare i suoi temi di fondo il più vicino possibile alle esperienze che sono di tutti.

Il fine specifico di questo universalismo sapienziale non è di natura proselitistica, un tratto sempre piuttosto ignorato dalla tradizione antico-biblica; quanto piuttosto uno sforzo, a beneficio dell’ebreo, per rendere possibile una vera e concreta fedeltà alla tradizione anche in un contesto culturale non più protetto dall’omogeneità etnica. Non si tratta di divulgare la fede ebraica, ma di renderla possibile fuori da Israele. Fuori non solo in senso geografico, ma soprattutto mentale, laddove cioè i nuovi saperi del grande mondo ellenistico portano i temi della fede tradizionale a confrontarsi in un modo nuovo con il piano delle esperienze umane universali, e la loro provocatoria contraddittorietà. La vita, condizione di mobilità per eccellenza, fatica a sottomettersi all’immutabilità dei grandi principi; uno scarto si apre tra le due dimensioni, e la sua misura sta in primo luogo sul piano delle scelte e delle decisioni più minime, ma poi soprattutto su quello dei massimi momenti dell’amore, del dolore, della morte, e in generale della finitezza della vita. I sapienti di Israele affrontano, insomma, quello che potremmo chiamare il problema morale, nel quale nessuna tradizione religiosa può trovare criteri effettivamente validi per sé che non siano contemporaneamente validi anche per tutti.

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