Opinioni

Giustizia e ingiustizia. Trattativa Stato-mafia, i due volti della sentenza di Palermo

Danilo Paolini sabato 21 aprile 2018

Ha retto, forse un po’ a sorpresa, l’impianto accusatorio costruito dalla procura della Repubblica di Palermo per dimostrare che nei primi anni 90 lo Stato trattò con "cosa nostra" per disinnescare la strategia stragista di quest’ultima. Una trattativa effettivamente ci fu, ci dice il verdetto emesso ieri pomeriggio dalla Corte di assise del capoluogo siciliano, e riguardò gli allora vertici del Ros dei Carabinieri, che avrebbero fatto pressioni sui governi dell’epoca. E Marcello Dell’Utri, stretto collaboratore di Silvio Berlusconi, tra i fondatori di Forza Italia e poi parlamentare della stessa forza politica, già condannato in via definitiva cinque anni fa per concorso esterno in associazione mafiosa. Dell’Utri, dunque, dopo la vittoria del suo partito alle elezioni politiche del 1994, sarebbe stato il "portavoce" delle minacce dei boss presso il primo governo Berlusconi.

Ma le sentenze vanno rispettate fino in fondo. Allora va affermato con chiarezza che quella di ieri non ci dice (e, date le premesse, non poteva dircelo) che i contatti con i boss Riina, Bagarella, Cinà e con l’ex-sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino – le "rivelazioni" talvolta false o non riscontrate del figlio di quest’ultimo, Massimo, sono state alla base del processo concluso ieri – furono tenuti, esperiti o avallati da esponenti di governi della Repubblica. E questo è un elemento essenziale, anzi imprescindibile nell’ambito di un procedimento che si è protratto per cinque anni tra mille polemiche (anche tra gli stessi magistrati inquirenti), troppi veleni e autentici drammi umani.

Come quello di Loris D’Ambrosio, magistrato di lungo corso, già collaboratore di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia, consigliere giuridico di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica, morto a 70 anni per un malore dopo che il suo nome era stato associato all’inchiesta sulla "trattativa" per una telefonata con l’ex-ministro dell’Interno Nicola Mancino (in quel momento ufficialmente soltanto testimone), intercettata dagli inquirenti come diverse altre, sempre intercorse con il Quirinale. «Casualmente», si giustificò la procura. Tuttavia poi chiese di utilizzare (richiesta respinta, ma si dovette arrivare al conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale) anche le telefonate tra Mancino e l’allora capo dello Stato, nonché di interrogare lo stesso Napolitano, cosa che effettivamente avvenne al Quirinale nell’ottobre del 2014.

E un dramma è stato quello di Mancino, l’unico uomo di governo risucchiato in questo processo, seppure solo per falsa testimonianza: assolto con formula piena, l’ex-ministro Dc ed ex-presidente del Senato, da cittadino e da giurista ha tenuto un atteggiamento sempre rispettoso della giustizia e della magistratura, pur ritenendosi oggetto di una oltraggiosa ingiustizia. Ieri, così, ha potuto finalmente dichiarare terminata la sua «sofferenza», non mancando di definirsi «vittima di un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo uomo che tale è stato ed è tuttora».

Una sua eventuale condanna per aver dichiarato il falso avrebbe rinfocolato il sospetto dell’esistenza di un livello politico-istituzionale della trattativa. Ma così non è stato. Già in sede di istruttoria, in effetti, la procura era riuscita a formulare nei confronti di un solo ex-ministro l’accusa (tanto discussa a livello giuridico) di «violenza o minaccia a corpo politico dello Stato»: Calogero Mannino, che però scelse la strada del rito abbreviato e nel 2015 fu assolto. Il processo di appello è in corso.

Quel che rimane, dopo ieri, è senz’altro uno scenario grave e inquietante. Ma le assoluzioni di Mancino e di Mannino pesano e fanno riflettere quanto le condanne di tutti gli altri. E l’arresto di Totò Riina all’inizio del 1993, dopo 24 anni di latitanza (per inciso, a opera proprio del Ros dei Carabinieri e con Mancino alla guida del Viminale), lascia intatti molti interrogativi sulla effettiva ampiezza e consistenza della trattativa. A meno di pensare davvero, come ha sostenuto il sostituto procuratore Teresi durante il processo che si è appena chiuso, che il "capo dei capi" fu consegnato allo Stato dall’ala di "cosa nostra" più vicina a Bernardo Provenzano perché giudicato un interlocutore troppo intransigente. E questa è davvero un’altra storia.