Opinioni

Quanto conta un presidente Federcalcio. Ridateci il «giuoco» e vero valore in campo

Massimiliano Castellani martedì 21 novembre 2017

Caro Carlo Tavecchio, dove eravamo rimasti? Ah già, all’11 agosto del 2014, il giorno del suo insediamento alla presidenza della Figc: per noi un’elezione clamorosa, quasi quanto un Mondiale sfumato dopo sessant’anni (Svezia 1958, lei aveva 15 anni dovrebbe ricordare...). Caro Presidente, anzi ex presidente della Figc, grazie delle sue dimissioni. Grazie per l’unico atto davvero sensato di questi tre anni, tre mesi e nove giorni di presidenza, in cui, ancora prima della débâcle con la Svezia il calcio italiano, anche grazie a lei, è stato vittima della sindrome di Stoccolma. Il popolo degli stadi si è sentito preso in ostaggio, consegnato piedi e lingua dagli 'uomini del presidente' al proclamato unico leader possibile per la nostra Repubblica fondata sul pallone. Il rapimento è finito ieri, 20 novembre, giorno che adesso tutti – compresi i suoi fedelissimi, quasi tutti spariti – considerano una sorta di 25 aprile.

Certo, ora tutti si sentono liberati dal piccolo grande Tavecchio, ma noi restiamo super partes, non festeggiamo sulle “disgrazie” altrui, anche perché il pericolo rimane. Lo spettro che aleggia ancora è il “tavecchismo” che con altre forme e sotto altre maglie si annida nel Palazzo del calcio. Il 'tavecchismo' è lo stile – sì fa per dire – spacciato per managerismo, in realtà maneggionismo all’italiana («dimissioni politiche», ha dichiarato Carletto da Ponte Lambro), accettato e condiviso fino a mezz’ora fa da coloro che siedono ancora beatamente al tavolo della stanza dei bottoni (unica verità del Tavecchio furioso: «Mi sono dimesso solo io!»). Sono gli stessi gerarchi pallonari che hanno permesso al Carletto brianzolo di arrivare al potere, di dare dei «mangiatori di banane» ai figli degli stranieri che vivono, risiedono e lavorano in Italia, degli «Optì Pobà» agli extracomunitari che giocano nel nostro campionato.

Il tutto, ignorando completamente le regole fondamentali dello «Ius culturae ». Parola latina eppure straniera per l’omertoso, rapace e sempre più sgrammaticato mondo del calcio. L’ignoranza, intesa come capacità di ignorare l’abc della comunicazione – e non solo – è stato uno dei tratti caratterizzanti dell’era Tavecchio. E ora può rappresentare l’insidia maggiore che mira a bloccare ancora quelli (i Tommasi, gli Albertini, i Maldini...) che credono nella necessità di voltare pagina una volta per tutte e intraprendere quel percorso, sempre sbandierato e mai messo in campo, che va sotto il nome di «nuova cultura sportiva». Serve una nuova squadra, quindi una nuova Nazionale e una mentalità tecnica da riformare, ma principalmente occorre convocare un gruppo dirigenziale che sia innovativo, fresco – a prescindere dal dato anagrafico, anche se possibilmente “under Tavecchio”: non si accettano Galliani, per intenderci – e soprattutto non contaminato dal 'tavecchismo'.

Basta con il promettere ai nostri giovani che il futuro, anche nel calcio, è alla loro portata, quando poi vengono puntualmente illusi e finiscono in tribuna, anche nella vita. La «riqualificazione del prodotto calcio», uno dei dogmi di Tavecchio assieme ai «grandi eventi», deve ripartire con il rimettere al centro del progetto sportivo l’uomo, che è un atleta e non un prodotto e che esiste a prescindere dagli eventi, grandi o piccoli che siano. Il presidente che verrà dopo di lei, caro Tavecchio, deve pretendere e lottare per un unico sistema, quello del valore, che faccia crescere i talenti non da polli in batteria – come si fa da troppo tempo in 'accademie' aperte come concessionarie di automobili in giro per l’Italia (la Germania campione del mondo ne ha una soltanto e centralizzata). Prima che nuovi stadi di proprietà, altro tormentone italiota e i propositi di gigantismo (quasi sempre morti sul nascere da noi) firmati dalle presunte archistar di turno, servono degli impianti nuovi e funzionali, da nord a sud, con un occhio di riguardo alle realtà periferiche e più a rischio di degrado ed emarginazione sociale.

Più sensibilità e meno politica, in campo e specialmente fuori, le avevamo chiesto caro Tavecchio, e lei ci ha risposto con sponsor antitetici al vero calcio, come Intralot che ancora “istiga” (per tutto il 2017) alle scommesse usando la maglia azzurra fin dalle rappresentative giovanili, o addirittura sponsor «contra legem», come i russi di 1XBet che da commissario rex della Lega di Serie A era tenuto a sventare e cassare molto prima della denuncia di 'Avvenire'. Infine, noi di 'Avvenire' aspettiamo di vedere con curiosità se chi verrà dopo Tavecchio rimuoverà il bando presidenziale con cui siamo stati 'espulsi' dalla rassegna stampa della Federcalcio: troppo grave che ci si batta per un calcio più umano e più vero, più vicino a quella “g” di Figc che indicherebbe il valore più grande di ogni sport: il «giuoco».