Opinioni

Quella memoria e quest’Italia. Da Tangentopoli alla politica di oggi

Marco Olivetti martedì 23 luglio 2019

La scomparsa di Francesco Saverio Borrelli e le reazioni che l’hanno accompagnata ci dicono alcune cose importanti su di noi oggi e sul modo in cui guardiamo a un capitolo del nostro recente passato, vale a dire alla svolta politico-giudiziaria dei primi anni Novanta del Novecento: su Tangentopoli non si è formata una memoria condivisa e neppure una narrazione egemone nell’opinione pubblica italiana. Gli eventi in questione sono, in fondo, abbastanza lontani: più di due decenni, meno di tre, pressappoco come la Resistenza e la fine della guerra al momento del Sessantotto. Ovviamente neppure alla fine degli anni Sessanta mancavano controversie nella pubblica opinione sugli eventi che avevano segnato la prima metà degli anni Quaranta: e ciò non può stupire, dato che la storia è destinata continuamente a essere riletta e che molti profili di essa restano aperti al dibattito pubblico. Ma il nostro sguardo di oggi su Tangentopoli – nel momento in cui esce di scena il principale protagonista di quella stagione sul lato giudiziario – resta uno sguardo molto più diviso e incerto.

Solo un’analisi superficiale di questa vicenda può ridurla a quella vecchia diatriba "guardie e ladri" che si è prolungata per qualche tempo, avvelenando moralisticamente la dialettica fra berlusconismo e antiberlusconismo negli anni fra il 1994 e il 2011. Siamo divisi su Tangentopoli – e forse chiunque rifletta a fondo è diviso in interiore homine – perché quella vicenda aveva in sé qualcosa di ineluttabile e, al tempo stesso, non ha fatto crescere il Paese, per il modo in cui è stata gestita sul versante giudiziario e su quello politico e per il modo in cui il tema della corruzione e della lotta alla corruzione – una cruciale questione di qualità della democrazia – è stato strumentalizzato negli anni successivi e lo è tuttora.

Detto in altra maniera: il sistema di partiti di massa che fu travolto dalle inchieste milanesi dei primi anni Novanta era ormai l’ombra di quello che aveva rappresentato e risollevato il Paese dopo la Seconda guerra mondiale. E il suo potere di intermediazione politica era una superfetazione non più tollerabile in una società che si apprestava a fare un salto di qualità nell’integrazione europea e nei processi di globalizzazione, allora ancora nella loro prima infanzia.

Quel sistema di partiti, inoltre, aveva perso molte radici nella società civile (si pensi alla crisi del rapporto fra la Dc e l’associazionismo cattolico) ed esercitava sulla società e sul potere economico un ruolo tutelare che, se era spiegabile in una società ancora agricola/industriale con bassa alfabetizzazione come quella del dopoguerra, non era più sostenibile in una società terziarizzata a capitalismo maturo quale era ormai l’Italia dei primi anni Novanta. Da questo punto di vista, l’azione della magistratura milanese, in stretta alleanza con i media, ha svolto un ruolo oggettivamente necessario al progresso del Paese.

Tuttavia, il prezzo di quel rinnovamento è stato alto, altissimo, e sarebbe difficile per chiunque affermare che negli anni immediatamente successivi al trauma del 1992-94 e anche oggi l’Italia abbia una classe dirigente e un’etica pubblica più funzionali di quelle della cosiddetta Prima Repubblica. Non si tratta solo di rileggere il modus operandi, con elementi di terrore rivoluzionario, sia pur in variante light, che hanno caratterizzato il circuito mediatico-giudiziario della prima metà degli anni Novanta: cosa che sarebbe pure necessaria e sulla quale qualche autocritica da parte dei protagonisti di quegli anni sul versante giudiziario sarebbe utile.

Le inchieste di Tangentopoli e la giustizia spettacolarizzata non hanno solo distrutto un ceto politico che sembrava inamovibile (e che forse sarebbe stato egualmente smosso anche senza quelle inchieste, per il mero effetto della fine della guerra fredda e delle riforme elettorali), ma hanno delegittimato la politica tout court, generando un vuoto, riempito dapprima dal berlusconismo e dall’antiberlusconismo e oggi dai populismi di destra e di sinistra.

In questo vuoto, il potere giudiziario ha sguazzato gioiosamente, generando una nuova anomalia italiana: in nessun altro Paese i magistrati esercitano incarichi politici così vistosi come in Italia: sindaci, presidenti di Regione, ministri, capi di partito, presidenti di assemblea parlamentare, deputati nazionali ed europei, oltre che consiglieri in vario modo dei governi di turno. La recente vicenda che ha riguardato il Csm ha, del resto, rivelato ciò che era noto quasi a tutti, vale a dire che, fra l’altro, il rapporto fra giustizia e politica si è ormai rovesciato: mentre fino agli anni Ottanta erano alcune forze politiche che cercavano di servirsi di alcuni magistrati organizzati, ideologicamente affini, oggi accade il contrario e sono talune lobby giudiziarie a penetrare nei partiti e a servirsi di essi, anche se spesso per pure ambizioni personali. Dovremo dunque tornare a riflettere su Tangentopoli evitando assoluzioni a buon mercato ed eccessi di moralismo, riconoscendo la nobiltà degli intenti che stava anche dal lato di non pochi politici che si sono resi colpevoli di violazione delle norme sul finanziamento dei partiti, ma che sul piano personale non erano forse più integri dei magistrati che li processavano, e riconoscendo a quella classe politica il merito di alcune scelte fondamentali oggi discusse ma generative del nostro presente: si pensi per tutte al ruolo decisivo – compatibilmente con il peso specifico in Europa dell’Italia – di Andreotti e De Michelis nel cammino verso il Trattato di Maastricht, vera pietra miliare dello sviluppo delle istituzioni europee. Molti dei politici travolti da Tangentopoli avevano ancora una visione dell’interesse generale del Paese, proprio ciò che oggi sembra smarrito dai radar. E che tanti di noi, magari consegnati a un amaro astensionismo, cercano e non trovano in chi ci rappresenta e ci governa.