Opinioni

Le smemoratezze e la sera di Bergamo. Ma ricordare ci è necessario

Francesco Ognibene martedì 30 giugno 2020

Tutti ormai avremo fatto l’esperienza di affacciarci a una situazione nella quale la "normalità" così a lungo attesa si è finalmente materializzata, consentendoci di ritrovare dopo "i giorni del lockdown" pensieri e sensazioni familiari ma da tempo accantonanti a forza: una passeggiata in montagna, la gita fuori porta, una serata con amici che non si vedevano chissà da quanto... È in questi momenti di quiete che abbiamo forse ritrovato il sentore della vita "di prima", sfrondata di preoccupazioni e notizie ansiogene, e con essa la sensazione di poter svoltare, una buona volta.

Non possiamo dire quindi che ci sia estraneo ciò che cercavano i moltissimi italiani che nell’ultimo week end (più lungo che altrove a Roma) hanno affollato i luoghi della vacanza e del tempo libero, purtroppo in diverse situazioni accalcati senza apparente osservanza di regole e distanziamenti. C’è un’Italia dimentica di quel che è accaduto e sembra aver preso corpo tutta insieme, come rispondendo a un richiamo collettivo irresistibile: è fatta, ci siamo ancora, dov’eravamo rimasti? Di fronte a questo ritratto, che obbedisce allo stereotipo dell’italiano che non vede l’ora di lasciarsi tutto alle spalle si è stagliata con potenza la scena della cerimonia davanti al cimitero monumentale di Bergamo, con 243 sindaci a rappresentare la provincia più piagata dal Covid e il presidente Sergio Mattarella a nome di tutti gli italiani.

Una serata solenne scandita dal Requiem di Donizetti, dalla preghiera di Ernesto Olivero per i defunti e per i vivi, e dalle parole con cui il capo dello Stato ha detto che «qui c’è l’Italia che ha sofferto, che è stata ferita, che ha pianto. E che, volendo riprendere appieno i ritmi della vita, sa di non poter dimenticare quanto è avvenuto».

Le due immagini domenicali – le spiagge assolate e sin troppo smemorate e la sobria esemplare serata bergamasca – si sono così inevitabilmente sovrapposte al punto da obbligare a chiedersi, di fronte a idee così apparentemente lontane della memoria: noi dov’eravamo? E io, dove avrei preferito essere? Non si tratta però di separare il Paese in due nuove fazioni, chi vuole dimenticare e chi sa di non poter rimuovere.

È infatti evidente che spiagge, parchi e piazze delle nostre città in questi primi giorni di estate vera non possono che essere frequentate da quegli stessi italiani che per settimane hanno dato al mondo l’esempio per molti sorprendente di una disciplina pressoché assoluta nell’osservare le drastiche misure per il contenimento del contagio. Eppure è proprio in quel tempo di confinamento forzato della nostra vita che ci siamo detti e ripetuti che non avremmo mai dimenticato, che la lezione di giorni consumati tra le mura domestiche nell’assedio di bollettini angoscianti ci sarebbe stata compagna di viaggio nell’incerto futuro.

In questione è quindi proprio la memoria, più precisamente la sua qualità. Nessuno è in grado di dimenticare davvero quello che abbiamo sperimentato tutti, per la prima volta senza cesure tra chi è stato provato e chi no. Fatica e angoscia sono diventate sentimenti collettivi, e proprio questa condivisione di giorni senza orizzonte ci ha affratellati come mai era accaduto alle generazioni post-belliche. Ma più l’età si fa giovane più è la vita stessa a reclamare quello spazio rubato all’ombra della morte che si chiama speranza e che scaccia come un oggetto estraneo la paura appena spunta il primo sole di una libertà possibile.

A questa evidenza anagrafica si somma una certa, crescente confusione subentrata nei messaggi sull’azione della malattia, che tendono a elidersi a vicenda. Un Paese logorato da tre mesi a porte sbarrate che oggi gli pesano come anni interi ha fame del suo domani, e lo cerca comprensibilmente dove e come può. Non sono né possono essere due Italie quelle che si sono viste domenica, ma occorre tener d’occhio movimenti carsici che sono in azione.

Come i fattori emotivi che potrebbero creare una frattura generazionale tra gli anziani ancora guardinghi e il resto degli italiani in libera uscita, o i sintomi del ritorno di un individualismo nei comportamenti collettivi che aprono più di un interrogativo sulla fibra del Paese alla prova di un autunno prevedibilmente complicato. Ricordare – chi è morto, cosa abbiamo vissuto, chi siamo stati, cosa ci siano promessi e ripromessi – non è l’attardarsi su un tempo cupo ormai consegnato agli archivi, ma un segno di maturità: è il renderci consapevoli, anche nella serenità da ciascuno riconquistata a caro prezzo, che nulla è vissuto invano.