Opinioni

Il ricorso vinto dallo stragista Breivik e un principio-cardine. Breivik, la disumanità si vince con l'umanità

Mario Chiavario giovedì 21 aprile 2016
Ci sono sentenze che di primo acchito non possono non lasciare sconcertati e persino increduli. Così si può dire di quella pronunciata ieri da una Corte norvegese, in risposta a un ricorso presentato da Anders Breivik, squallido epigono della ferocia nazista e colpevole della strage sull’isola di Utoya che nel 2011 costò la vita a decine di persone, sorprese e massacrate nel corso di una pacifica manifestazione politica. Ma come? Un individuo del genere osa accusare, proprio lui, di disumanità il trattamento che gli tocca subire come sanzione per l’orrendo crimine commesso? Osa lamentarsi dell’isolamento in cui è stato tenuto per meno di cinque dei 21 anni (salvo possibili proroghe) cui venne condannato? Non è, questo, un ulteriore sfregio alla memoria delle vittime innocenti di un crimine tanto enorme? Sono domande che hanno un senso. E sono del tutto comprensibili, dunque, i commenti sferzanti e le reazioni di rabbia di fronte alla notizia, così come viene immediatamente percepita: tanto più che, a quanto pare, le condizioni in cui Breivik si è trovato recluso non sono propriamente quelle degli ospiti del Castello di If, come tratteggiate dalla penna di Alexandre Dumas. Ma è proprio inevitabile fermarsi lì? D’accordo. Quanto al caso di specie, è probabile che nelle loro conclusioni i giudici di Oslo abbiano ecceduto in rigore nei confronti dell’apparato penitenziario, finendo in tal modo con l’eccedere, al contrario, in “buonismo” verso una persona che ai nostri occhi già appare trattata con notevole indulgenza quanto alla misura della pena inflittale. Ma altra cosa sarebbe coinvolgere, nella ripulsa, un principio che invece dovrebbe essere un caposaldo di ogni società civile: è quello secondo cui le pene non possono mai tradursi in qualcosa di inumano: principio che anche la nostra Costituzione ha fissato (all’articolo 27) e che la Convenzione europea dei diritti umani ha sottratto a qualsiasi deroga, persino in relazione ai casi di guerra o di pericolo che minacci la vita di una nazione (articoli 3 e 15). Per certi versi, e con più di una sfaccettatura, il problema dei riflessi di quel principio ha traversato anche gli “Stati generali dell’esecuzione penale”, le cui indicazioni sono state riassunte e discusse a Roma nei giorni scorsi. Due, tra tante, le questioni che ne discendono, particolarmente scottanti e dai più spessi riflessi concreti: quella del cosiddetto “ergastolo ostativo”, che tuttora impedisce di scalfire la regola della perpetuità della pena per una parte di coloro che vi sono assoggettati, negando loro la possibilità – ad altri concessa – di fruire della liberazione condizionale dopo 26 anni di “buona condotta”; e quella della fisionomia da assegnare alla misura prevista dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario (sacrosanto strumento per recidere pericolosi contatti tra i boss della criminalità organizzata con i loro adepti, interni ed esterni al mondo delle prigioni, o “carcere duro” di mero inasprimento della detenzione, con aspetti privi di qualunque rapporto con finalità di tutela della sicurezza collettiva?). Più in generale, si tratta di una problematica che specialmente dei cristiani non dovrebbero respingere con fastidio, come pure sono tentati di fare adeguandosi al cosiddetto sentire comune. Quello secondo cui i criminali estremi “non hanno diritti” e per loro non può valere nessuna legge di umanità, trattandosi – quante volte lo abbiamo udito... – soltanto di belve. Oppure è questo uno dei punti su cui si preferisce ignorare gli stessi richiami alla misericordia, forti, e non retorici, da parte di papa Francesco, dove c’è spazio anche per ben diverse risposte specifiche a questioni come quelle? A una misericordia, beninteso, non cieca e sorda alle istanze autentiche di giustizia.