Opinioni

Le due malattie. Tragico lutto e caccia agli «untori»

Giuseppe Anzani mercoledì 6 settembre 2017

Una bambina di quattro anni che muore di malaria dopo il ricovero in un ospedale italiano è un dolore che trapassa il cuore, è il picco del dolore. È per noi anche una incredula angoscia perché è una morte insolita, e la paura vi associa pensieri di allarme. La malaria in Italia non c’è; la malaria è stata un incubo, per l’Italia, per secoli e secoli, quando infestava le zone paludose poi finalmente bonificate nel secolo scorso; e l’anopheles, la zanzara malefica che inietta nel sangue il plasmodium col suo pungiglione, è stata sconfitta, sradicata. La malattia è rimasta endemica nelle zone tropicali del mondo, dove ogni anno si contano più di 200 milioni di malati e circa 400mila morti (il 2 per mille). E la notizia che nello stesso ospedale c’erano due bimbi malati, di ritorno da un viaggio nel Burkina Faso, loro Paese d’origine, mescolandosi alle paure addensate negli ultimi tempi da un clima di nervosismo ostile verso il flusso dei migranti sulla rotta mediterranea, ha fatto uscire parole cattive da qualche esponente politico impregnato di umori cattivi.

Perché un conto è l’urto impressionante dell’allarme dal lato sanitario, per il caso più unico che raro, e il bisogno di una indagine di precisione assoluta, senza la quale si rischiano vaniloqui. Un altro conto è il rigurgito di parole insensate sulle «orde di finti profughi che stanno invadendo l’Italia» senza che i governanti assicurino che queste orde non portino «gravissime malattie». Un’immagine che sembra evocare la peste portata al seguito dai Lanzichenecchi nel racconto del Manzoni (chiedendo scusa allo scrittore lombardo, per qualche differenza stilistica). Un modo per gettare la tragedia di questa morte sulla bilancia dei rancori preventivi, della rabbia e dell’astio verso una intera moltitudine di persone che non c’entrano e che sono additate come indistinto bersaglio di massa. È di nuovo il corto circuito del pensiero che cerca il capro espiatorio, costruisce la categoria degli untori.

Gli esperti sono già all’opera per scoprire l’origine del morbo che ha ucciso la piccola Sofia. Le statistiche dicono che ogni anno circa 600 italiani che tornano da viaggi di lavoro o turismo nei Paesi dove la malaria è endemica prendono l’infezione. In Francia stanno peggio, sono 2.200. Gli immigrati non c’entrano con queste vicende. Da noi un contagio "autoctono" (cioè originato in Italia) può accadere a chi risiede in zone aeroportuali, se qualche zanzara resta tra i vestiti o nelle valigie, e punge prima di morire; oppure per contagio da sangue infetto a sangue sano, evento anche questo ordinariamente evitabile. Si accenna l’ipotesi che il contagio sia avvenuto in ospedale, e gli interrogativi irrompono e ci scuotono sui rischi durevoli e generici che le statistiche assegnano alle infezioni nosocomiali; ma per ogni certezza dobbiamo ancora attendere.

Questa attesa non è senza ansia. L’accompagna l’immagine di quel volto, nella fissità della morte che è il peso dell’assurdo, come accade per ogni dolore innocente che precipita dentro la vita. Ma a sciogliere l’enigma non giova caricare il cuore di ostilità verso chi porta solo il fardello d’un altro dolore innocente e farne fantasma globale d’un male colpevole d’ogni male che accada. Questa è ancora malaria, l’altra malaria: quando il plasmodio dell’odio ti è entrato nell’anima.