Opinioni

L'opera di Marchionne. La sua eredità migliore è un compito aperto

Francesco Riccardi giovedì 26 luglio 2018

La morte di Sergio Marchionne, prematura e 'ingiusta' come lo sono tutte quelle che non avvengono serenamente allo spegnersi degli anni, porta con sé un ultimo messaggio. Quasi che lo stesso grande manager avesse potuto – con la sua personale sofferenza giunta improvvisa, inattesa nella sua gravità, ma come sospesa per qualche giorno sulla soglia di un’altra casa – non renderla del tutto 'vana' e chiusa in se stessa, consegnandoci invece l’occasione per una duplice riflessione. L’una, più personale, appunto sul valore della vita, di tutte le vite quando si confrontano con il loro ultimo e decisivo destino, su cui ha già scritto qui, con le giuste parole, Marina Corradi. L’altra, invece, che attiene più prosaicamente alla sfera dell’agire economico, del fare impresa e in definitiva della missione e del destino del nostro capitalismo.

Una provocazione utile, potremmo definirla, l’ultima di quel Sergio Marchionne che ha certamente provocato e scosso e cercato di cambiare il mondo delle grandi imprese italiane, tanto impregnato di protagonismi quanto vuoto di reali personalità (fatta qualche rarissima eccezione). Nei giorni scorsi, nei quali si è consumata l’agonia dell’uomo Marchionne, infatti, in molti si sono esercitati a redigere il bilancio dell’(ex) amministratore delegato di Fiat prima e di Fca poi. Ascrivendogli, nella partita doppia dei crediti e dei debiti, tanto il salvataggio del gruppo automobilistico italiano, effettivamente avvenuto dopo che aveva sfiorato il fallimento, quanto però lo spostamento dell’asse del potere e della redditività verso gli Stati Uniti (oltre alla fuga in Olanda e Gran Bretagna delle sedi legale e fiscale); la valorizzazione finanziaria dell’azienda passata da 5,5 a 60 miliardi di euro di capitalizzazione e però un supposto 'svuotamento' delle sue capacità di innovazione sul piano più prettamente industriale; la globalizzazione del marchio attraverso il matrimonio con Chrysler e dall’altra parte i fallimenti nelle operazioni di conquista dei mercati cinese e indiano.

Tutto giusto perché, al netto delle analisi sempre opinabili sui singoli aspetti, restano due le certezze in qualche modo indiscutibili: la prima è che, senza l’azione manageriale di Sergio Marchionne, la Fiat probabilmente oggi non esisterebbe più e per molte delle sue fabbriche, a cominciare da Pomigliano, staremmo discutendo di quale nuova destinazione d’uso attribuirgli, se centro commerciale o parco divertimenti.

La seconda è che Fca non ha conquistato nuovi primati in Europa, non si è distinta per particolari svolte innovative di prodotto – come l’auto elettrica – e dunque il suo destino resta quello di una difficile lotta per la sopravvivenza in un futuro in veloce cambiamento. C’è però un aspetto che Sergio Marchionne ha avuto ben chiaro fin dall’inizio e su cui ha speso molto del suo impegno: il valore e l’orgoglio del fare umano, l’incidere sulla realtà con il proprio lavoro. Un fare che in azienda non si declina mai al singolare ma sempre al plurale, fino a rendere l’impresa una comunità di persone legata da un destino comune.

Al di là del risanamento dei conti, del recupero di glamour con la 500 o la Maserati, la più grande innovazione che Marchionne ha introdotto in Fiat è stata quella di rivalutare l’apporto del capitale umano, aver intuito che la forza di un prodotto, di una fabbrica e di un gruppo sono le persone che ci lavorano, è il loro senso di appartenenza, è l’orgoglio di essere una squadra, è la partecipazione, ognuno con le proprie responsabilità e capacità, alla creazione di un bene, di un valore che va ben oltre quello finanziario. In questa logica stavano le nuove relazioni industriali che Marchionne ha cercato di implementare, trovando nella Fim Cisl e nella Uilm non partner accondiscendenti ma interlocutori esigenti e su cui si è invece consumato – con errori da entrambi le parti – lo scontro con la Fiom-Cgil e una parte della sinistra. Con coloro, cioè, che su questo terreno vivono la contraddizione di non poter concepire i rapporti tra lavoro e capitale se non in termini di eterno e insanabile conflitto.

Se oggi Confindustria riconosce i propri errori, che portarono Fiat all’uscita dall’associazione di rappresentanza, e nel contempo sottolinea come alcune parti del 'Patto per la fabbrica' firmato lo scorso anno con i sindacati siano figlie proprio della riflessione successiva a quell’uscita, vuol dire che quel mutamento nelle relazioni industriali è stato incisivo e fecondo. Ecco dove sta, però, contemporaneamente il limite di Sergio Marchionne, la sua 'grande incompiuta': nel non aver avuto il coraggio di spingersi ancora più avanti, imprimendo ai rapporti nel più importante 'gruppo italiano' una svolta definitiva nella direzione della partecipazione agendo con decisione, ad esempio, sui salari per diminuire le insopportabili differenze tra top management e operai o sulla distribuzione di utili e azioni ai lavoratori o ancora su forme di condivisione e cogestione.

Forse la nostra aspettativa può apparire eccessiva e impropria, ma Sergio Marchionne poteva essere più del grande manager e del bravo risanatore che certamente è stato: con la sua capacità di visione, la sua forza e il suo carisma avrebbe potuto essere l’Adriano Olivetti degli anni 2000. John Elkann e Mike Manley hanno ora l’occasione per raccogliere quest’ultima provocazione che Sergio Marchionne lascia con la sua morte, mettendone a frutto l’eredità migliore.