Opinioni

Analisi. Così si sta portando l'Iran nelle braccia dei radicali

Riccardo Redaelli venerdì 1 marzo 2019

Selfie a Teheran davanti a manifesti di Rouhani (Ansa)

«Il veleno mortale per la politica estera è il diventare un tema di scontro fra gruppi e fazioni politiche». Così ha scritto via Instagram il ministro degli Esteri iraniano, il moderato Mohammad Javad Zarif, nell’annunciare le proprie dimissioni. Che tuttavia sono state respinte, come prevedibile, dal presidente Hassan Rohani. Ma che Zarif resti al suo posto o sia obbligato a restarvi, la sostanza non cambia: la scommessa del governo di Rohani di puntare in questi anni tutto sull’accordo nucleare con l’Occidente (il Joint Comprehensive Plan of Action) si è ritorta contro di esso, dopo il ritiro unilaterale statunitense deciso dal presidente Trump.

La iranofobia dilagante a Washington, continuamente rinfocolata da Israele e Arabia Saudita, ha prodotto nuove draconiane sanzioni economiche che stanno colpendo duramente il paese, la cui economia soffre di storture e inefficienze strutturali. Rohani e Zarif speravano che dall’accordo sarebbero derivati importanti ritorni in termini di investimento straniero e di crescita economica. Ma ora, con le nuove sanzioni, si assiste a una crisi commerciale e finanziaria molto pericolosa. La debolezza del governo è accentuata dai continui attacchi dei conservatori che lo accusano di aver «svenduto il Paese» al nemico storico americano e di essersi fatto irretire da false promesse. La crisi economica insieme al senso di tradimento per il voltafaccia statunitense e al bombardamento mediatico conservatore sembra aver incrinato il fronte moderato: Rohani in questi mesi ha cambiato in continuazione i ministri economici e del lavoro senza risultati apparenti, se non di dare una dimostrazione ulteriore di vulnerabilità e debolezza.

Il presidente insiste nel sottolineare come le nuove sanzioni facciano parte di una jang-e ravani, ossia una 'guerra psicologica' esterna per esasperare i conflitti interni al frammentato nezam, come viene chiamato il sistema di potere post rivoluzionario di Teheran. Una trappola in cui non bisogna cadere, reagendo in modo unitario e evitando di alzare il livello dello scontro regionale in Siria, Iraq e Yemen con gli arabo-sunniti, come vogliono invece i pasdaran. Anzi, la ricetta dei moderati come Rohani e Zarif è quella di mantenere una politica conciliante con la comunità internazionale e di collaborare con le richieste occidentali, quando possibile. Zarif stesso si era in questi mesi battuto in prima persona per far approvare una contestata legge contro il finanziamento del terrorismo e il riciclaggio di denaro, come richiesto da un organismo internazionale, la Financial Action Trade Force (Fatf ) di Parigi. Uno strumento che doveva servire a rendere meno opaca la gestione dei flussi finanziari, spesso amministrati direttamente o indirettamente dai pasdaran, che muovono somme enormi senza alcun reale controllo. Non a caso questa legge – al momento bloccata – ha scatenato polemiche durissime e attacchi dalla parte più oscura del sistema di potere, che ha trovato in Zarif il bersaglio privilegiato. Perché dare trasparenza ai flussi di denaro da e per l’Iran non significa solo assecondare le richieste europee, ma soprattutto rendere meno agevoli i traffici che le forze di sicurezza usano per finanziare le loro operazioni al di là della frontiera, oltre che per fare enormi profitti illegittimi.

Ma la vera partita che si gioca a Teheran ha soprattutto a che fare con le scelte strategiche regionali. In questi anni, un po’ per propria abilità, un po’ per l’incapacità dei propri avversari, la Repubblica islamica dell’Iran ha rafforzato il proprio ruolo regionale: estremamente influente in Iraq, Teheran ha di fatto vinto la guerra per procura contro i sauditi in Siria, del cui presidente Assad gli iraniani sono i primi irriducibili sostenitori, mentre continua a bloccare le forze arabe delle monarchie del Golfo nel conflitto yemenita, che miete innumerevoli vittime civili nel disinteresse internazionale. Tuttavia questi successi tattici nel Vicino Oriente hanno provocato anche una pericolosa sovraesposizione del paese: a livello economico, dato che le guerre costano sempre molti soldi, umano - con perdite significative fra i pasdaran e le milizie sciite - ma soprattutto strategico. È la cosiddetta iperestensione geopolitica: sono proprio i successi dell’Iran a rendere la sua posizione troppo esposta e difficilmente sostenibile. Aver vinto in Iraq e in Siria ha esasperato i nemici della Repubblica islamica, rendendoli ancora più determinati. Un crescente isolamento che ha enfatizzato la sindrome di assedio del regime, con la conseguente marginalizzazione del governo dai processi decisionali più importanti a vantaggio delle forze di difesa.

Rohani e Zarif credono che il consolidamento di questi successi passi anche per dei compromessi con gli avversari regionali, al fine di ridurre la tensione e l’isolamento del paese. Al contrario i gruppi conservatori e i pasdaran si sono convinti che la strategia regionale iraniana debba divenire ancora più aggressiva. Teheran, al di là dei proclami retorici e della rappresentazione che se ne fa, è sempre stata strategicamente più prudente di quanto si immagini. Ma ora, in parte spinti dai successi sul campo, in parte come reazione alle politiche di Usa, Israele e Arabia Saudita, i conservatori ritengono prudenza significhi solo mostrare debolezza dinanzi al nemico.

Se questo è l’orientamento, allora è evidente che per un ministro come Zarif non ha senso rimanere al proprio posto. Se crolla Zarif, tuttavia, è evidente che nel mirino entrerà direttamente il presidente Rohani. Indebolito dalla crisi economica e dall’esasperazione dei ceti sociali più deboli, attaccato e marginalizzato dai conservatori, abbandonato da tanti riformisti che gli rimproverano di non aver ottenuto risultati sul piano politico interno, il presidente è in evidente difficoltà. Una difficoltà che fa gioco alla parte peggiore del sistema iraniano, ma anche ai nemici esterni e in particolare all’attuale amministrazione statunitense. Trump e i suoi consiglieri ultra-radicali hanno infatti bisogno che Teheran mostri il suo ghigno più feroce, non il sorriso conciliante di Zarif o la moderazione di Rohani. E come già accaduto in passato, paradossalmente è stata proprio la destra americana a correre in soccorso dei conservatori iraniani, bruciando ogni ponte costruito faticosamente dai riformisti e dai moderati. Toccherebbe all’Europa cercare di proteggere quel che resta dei rapporti difendendo non solo a parole l’accordo nucleare e offrendo una sponda al governo moderato. Ma confidare nell’Europa richiede un esercizio di ottimismo che a Teheran nessuno sembra più avere.