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Medio Oriente. Missili di Teheran in Iraq e Siria. Perché è una nuova escalation

Anna Maria Brogi martedì 16 gennaio 2024

I danni dei missili iraniani a Qamishli, in Siria

«Certamente». Se bastasse una parola a porre fine alle guerre dirette o indirette in Medio Oriente, sarebbe quella pronunciata dal ministro degli Esteri saudita, principe Faisal bin Farhan, in risposta a chi gli chiedeva se fosse disposto a riconoscere Israele entro un più vasto accordo dopo una soluzione alla questione palestinese. «Siamo molto preoccupati per la sicurezza regionale e la libertà di navigazione. La priorità deve essere la de-escalation nel Mar Rosso e nell’intera regione» ha detto il ministro a margine del Forum economico di Davos. «La priorità dell'Arabia Saudita è trovare una strada per la de-escalation attraverso il cessate il fuoco a Gaza».

Esattamente l’opposto di quanto sta avvenendo. Con l’entrata a viso scoperto dell’Iran nello scontro, il puzzle mediorientale si complica. E si concretizza il rischio di escalation. Teheran ha colpito direttamente, lunedì sera, in Iraq e in Siria. Le Guardie rivoluzionarie (pasdaran) hanno «preso di mira e distrutto uno dei principali quartier generali dello spionaggio del regime sionista (Mossad) nella regione del Kurdistan iracheno». Sia Baghdad, che ha denunciato la violazione della sovranità territoriale, sia le autorità regionali curde negano che ci fossero postazioni dei servizi israeliani. Teheran parla di rappresaglia per l’attentato di Kermal, che il 3 gennaio fece 94 vittime e fu rivendicato dallo Stato islamico (Isis/Daesh) dietro il quale “vede” gli arcinemici Usa e Israele. Il raid è stato condotto su Hawler, vicino a Erbil, con 11 missili balistici che hanno ucciso almeno 4 civili tra cui un bimbo di 11 mesi. «Molti altri bambini sono rimasti feriti» denuncia la Ong curda Hengaw con sede in Norvegia.

Attacchi «irresponsabili e imprecisi», accusa il Dipartimento di Stato americano. Altri 13 missili hanno colpito presunte postazioni del Daesh vicino a Idlib, nel nord della Siria, superando 1.300 chilometri.

L’azione di forza arriva dopo i ripetuti raid anglo-americani, senza vittime, sullo Yemen in risposta ai missili lanciati dagli Houthi filoiraniani nel Mar Rosso. Gli Stati Uniti hanno reso noto di aver sequestrato, l’11 gennaio, missili balistici e componenti di missili da crociera di fabbricazione iraniana su un’imbarcazione tradizionale araba (dhow) al largo della Somalia. Si tratterebbe di armi dirette agli Houthi attraverso la triangolazione con il Somaliland (il nord della Somalia in mano agli estremisti islamici). Dopo la nave cisterna colpita lunedì, un cargo battente bandiera maltese e di proprietà greca è stato raggiunto dai missili. In risposta le forze Usa hanno bombardato siti militari Houthi. La compagnia petrolifera Shell, seguendo BP e Qatar Energy, ha vietato ai suoi carichi la rotta Mar Rosso-Suez.

Se l’Iran è uscito allo scoperto, attaccando due Stati sovrani, non è detto che non possa farlo Israele. Come avrebbe ammonito l’inviato speciale in Libano del presidente americano Joe Biden, Amos Hochstein, stando alla ricostruzione del quotidiano al-Akhbar, vicino a Hezbollah: se i miliziani filoiraniani non arretreranno di 7 chilometri dalla Linea Blu di demarcazione, «Tel Aviv lancerà una guerra contro Hezbollah». Martedì le Forze di difesa israeliane hanno sferrato nel Libano meridionale «uno dei maggiori attacchi condotti dall’inizio della guerra». In pochi minuti artiglieria e aviazione hanno colpito decine di postazioni dei miliziani nel Wadi Saluki. «Ripristinare la sicurezza in Israele e riportare i residenti alle loro case», avrebbe ingiunto Hochstein, in quello che «sembra un avvertimento prima di una grave escalation» osserva il giornale libanese.

Se la posta in gioco è (anche) il futuro dei palestinesi, ogni giorno che passa nella Striscia di Gaza ne restano di meno, più affamati, più ammalati e più arrabbiati. La conta delle vittime sale a 24.285, con 61.154 feriti. L’85% della popolazione è sfollata, il 60% degli alloggi distrutto. Su 2,3 milioni, 378mila rischiano concretamente la morte per fame, denuncia l’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari, e quasi un milione (939mila) affrontano livelli «di emergenza» di denutrizione.