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Islam. L'apertura del Marocco fa paura ai media arabi

Federica Zoja giovedì 9 febbraio 2017

Non trova eco sulla stampa di lingua araba – ma solo su quella in francese e inglese – il pronunciamento del Consiglio superiore degli ulema marocchini in materia di apostasia e pena di morte, peraltro rivoluzionario per l’intero panorama islamico. Il Consiglio, correggendo un documento redatto nel 2012, ma diffuso un anno dopo sotto forma di fatwa fra mille critiche, ha modificato la propria valutazione nei confronti dei cittadini musulmani che si convertono a un’altra religione. La nuova interpretazione, che distingue il piano religioso da quello politico, si fonda sugli studi di un illustre predecessore, Sufyan al-Thawri, vissuto nell’Ottavo secolo dopo Cristo.

Grazie a questa lettura innovativa seppure riesumata dal passato (in sintesi estrema, secondo l’argomentazione di al-Thawri l’apostasia merita la condanna a morte solo se accompagnata da un “tradimento politico” nei confronti della comunità di origine, ndr), i legislatori marocchini potranno modificare il diritto vigente, che prevede la pena di morte per gli apostati, e respingere al mittente i prevedibili anatemi delle frange più conservatrici della società. I media nazionali hanno riferito la notizia in modo sfuggente. Sui social network e su alcuni forum prevalentemente francofoni, invece, si registrano i commenti entusiastici di cittadini favorevoli alla «possibilità di decidere in che cosa credere».

Va da sé che i siti informativi dei cristiani marocchini, in patria o emigrati, diano ampia enfasi a un passaggio storico per il Marocco pluriconfessionale. La svolta del Consiglio, al di là dei riflettori giornalistici, merita il massimo interesse da più punti di vista: in primis, essa riflette gli sforzi della monarchia marocchina, che vanta discendenza diretta dal profeta Maometto, di farsi sì guida della comunità islamica (il sovrano Mohammed VI è anche Amir al-Muminiin, cioè Guida dei fedeli, ndr), ma a distanza di sicurezza da qualsiasi deriva radicale. La società marocchina vive in una condizione di crescente strabismo religioso, messa alla prova da continui dibattiti a sfondo confessionale. Re Moham- med VI interviene in prima persona o manovra dietro le quinte. Negli ultimi anni la vigilanza delle autorità marocchine nei confronti delle moschee si è fatta ferrea, così come la formazione degli imam.

L’occhio lungo di Rabat monitora anche la diaspora, in collaborazione con i servizi di sicurezza dei Paesi in cui è più numerosa. Al momento, digerito solo parzialmente il divieto di produzione e vendita dei burqa imposto dagli Interni, la disputa che accende l’opinione pubblica è quella fra il ministro dell’Educazione Rachid Benmokhtar e i docenti di filosofia, in rivolta per un passaggio offensivo nei confronti della loro disciplina riportato in un manuale di recente adozione nelle ore di Educazione islamica. Per la verità, che si possa discutere del rapporto fra fede e ragione è già degno di nota, in una nazione che lotta costantemente contro minacce terroristiche endogene ed esogene. Ma la svolta marocchina sull’apostasia ha un valore anche in chiave panaraba, anche se offuscata dai recenti successi diplomatici del regno del Marocco.

Alla riammissione del regno marocchino nel consesso dell’Unione Africana, avvenuta a fine gennaio con 39 voti favorevoli su 54, tutti i principali organi di stampa di Nordafrica e Medio Oriente hanno dedicato e continuano a dedicare grandi energie. Non così per la riunione degli ulema a Rabat. Eppure un sottile filo lega strategie politiche e religiose del casato marocchino, che ambisce sempre più apertamente a un ruolo di primissimo piano in Africa. In particolar modo, alla testa dei Paesi islamici del continente nero. Come già Muammar Gheddafi, ma con un dna musulmano trasversalmente riconosciuto e una voce volutamente temperata.