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L'emergenza. Nell'Amazzonia brasiliana il Covid uccide il doppio: già 6.600 le vittime

Lucia Capuzzi mercoledì 3 giugno 2020

Indigeno Kokama denuncia la strage invisibile di Manaus

«Ancora un altro lutto. Carlinhos, è morto. Abbiamo perso un figlio della terra. Un professore. Era il pilastro della nostra scuola. Un riferimento per tutti». Il grido di dolore del villaggio di Sapotal, nella regione brasiliana dell'Alto Solimões, arriva via WhatsApp: nelle ultime settimane, otto persone sono state stroncate dal Covid. Tre erano anziani, due insegnanti. «Le cifre dei morti non sono numeri, sono storie di vita. Vite la cui perdita ha un impatto fortissimo sulle comunità. Dovremmo fermarci a pensare che cosa rappresenta per le loro vedere morire i propri anziani, custodi del sapere ancestrale. E i loro professori, che tanto sacrificio è costato formare e rappresentano il ponte tra la cultura tradizionale e i valori occidentali», raccontano María Eugenia Lloris Aguado, missionaria della Fraternità del Verbum Dei e Raimunda Paixao, laica e indigena. Entrambe sono parte dell'Equipe itinerante, una delle poche realtà a visitare i minuscoli villaggi indigeni disseminati lungo il corso del “Grande fiume”. Il Rio delle Amazzoni percorre come un'arteria vitale i 7.500 chilometri quadrati di Panamazzonia, il “cuore del mondo”. La pandemia, però, l'ha trasformato nell'“autostrada del contagio”.

Il virus è arrivato prima nelle metropoli amazzoniche: la peruviana Iquitos e le brasiliane Belém, Parintins e Manaus, dove si contano quasi 20mila casi e 1.500 morti “ufficiali”, anche se il bilancio reale potrebbe essere molto superiore. «Seguendo il corso del fiume, principale via di comunicazione amazzonica, e dei vari affluenti, il coronavirus è penetrato in profondità nella foresta, oltre le frontiere peruviane e colombiane», affermano le missionarie.

L'ultimo dato diffuso dalla Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) venerdì parla di oltre 155mila casi e quasi 7.500 morti in tutta la regione, che abbraccia nove Paesi. Di questi, quasi l'86 per cento dei malati (quasi 134mila) e l'88 per cento delle vittime (più di 6.600) sono concentrati in Amazzonia brasiliana, Paese epicentro della pandemia in America Latina con più di mezzo milione di infettati e 30mila decessi. Delle venti città brasiliane con più contagiati e morti ogni centomila abitanti, 14 sono sulle rive del Grande fiume. E le cifre crescono di giorno in giorno. Anche se, il più delle volte, malati e morti nella foresta non rientrano nelle statistiche. «Per questo, non abbiamo parole per ringraziare papa Francesco». Domenica, al termine del Regina Coeli, il Pontefice ha rivolto un accorato appello in difesa dell'Amazzonia e degli indigeni «particolarmente vulnerabili». Il messaggio ha molto toccato le genti della regione – religiosi, vescovi, leader indigeni, i cardinali Claudio Hummes e Pedro Barreto – che, attraverso la Repam – hanno rivolto un grazie commosso a Francesco per la vicinanza nella tragedia.

A Tabatinga, capitale dell'Alto Solimões, sono stati confermati 760 casi e 58 persone sono morte. Di queste, tredici erano indigeni Kokama e Ticuna. Da lì il contagio si è esteso a Benjamin Constant, distante due ore di barca, dove ci sono già 356 positivi e 15 decessi. «La paura è che ora il virus raggiunga Atalaia do Norte, porta d'accesso alla Vale do Javarí, casa di sette etnie e di 15 popoli in isolamento volontario, il numero più alto del pianeta. Se il Covid dovesse arrivare sarebbe una strage. In tutta la valle non ci sono medici né dispensari», sottolineano María Eugenia e Raimunda.

La cronica fragilità del sistema sanitario amazzonico – frutto del disinteresse dei governi – spiega, in parte, perché la mortalità del Covid fra gli indigeni sia il doppio rispetto al resto della popolazione – 12,6 contro 6,4 per cento –, secondo l'Associazione dei popoli indigeni brasiliani (Apib). L'altro fattore determinante è la corta memoria immunitaria dei nativi che li rende facile preda dei virus. Per questo, con l'irruzione del Covid, molte comunità hanno cercato di chiudersi ai visitatori. Cosa non facile dato che i cacciatori di risorse – legname e oro – stanno approfittando della pandemia per avanzare nel territorio. Il popolo Yanomami ha lanciato una campagna, attraverso Survival international, per cacciare dalla propria terra, tra Brasile e Venezuela, 20mila minatori illegali. Secondo l'Instituto socio-ambiental, a causa di questi ultimi, la xawara, come gli Yanomami chiamano l'epidemia, rischia di colpirne ben 5.600, il 40 per cento del totale.