Giovani

Giovani e Vescovi. Cos’è la vocazione? «Custodire la propria originalità»

Chiara Vitali martedì 8 marzo 2022

Alcuni giovani che hanno partecipato alla giornata "Giovani e Vescovi"

La vocazione, dice monsignor Corrado Sanguineti, «si lega al desiderio di scoprire l’originalità della propria vita». Il vescovo di Pavia ha dialogato con i giovani proprio sul tema «Vocazione e lavoro» il 6 novembre in Duomo, per l’evento di avvio di «Giovani e Vescovi», il progetto che sta coinvolgendo tutte le diocesi della Lombardia per immaginare nuove strade di crescita dentro la Chiesa, a partire proprio dal vissuto dei giovani. È rimasto «molto colpito» dagli interventi dei ragazzi, che qui tornano a porgli nuove domande, rilanciate da Avvenire.

La vocazione spesso si associa a chi fa una scelta di vita religiosa, ma i giovani le chiedono: cosa significa, per me?

È vero, i giovani si sono interessati molto al tema, per loro 'vocazione' è soprattutto una chiamata a rispondere alle domande e alle provocazioni della vita e a riscoprire il proprio volto. Alcuni hanno rimandato anche a un aspetto più profondo, perché 'vocazione' significa essere in rapporto con il mistero di Dio e trovare di conseguenza una forma originale per la propria vita. Tutte queste risonanze possono essere di particolare forza anche per chi è lontano dalla Chiesa: perché tutti coltivano il desiderio di scoprire la propria originalità.

«Non abbiamo forze e tempo per capire qual è la nostra vocazione» dicono alcuni giovani. La Chiesa come può accompagnarli?

Il primo modo è stabilire una relazione con loro, a partire dagli ambiti che frequentano. Ai giovani va dedicato un tempo di ascolto personalizzato, senza la preoccupazione di avere grandi numeri, e con la voglia di interagire personalmente con ciascuno. Credo sia importante anche offrire luoghi dove vivere esperienze comunitarie, di servizio e di preghiera accompagnata, così come momenti di ritiro. Sono tutte opportunità che rimettono in moto certe grandi domande sulla vita.

La vocazione viene spesso associata al lavoro. I giovani in Duomo hanno raccontato la loro precarietà, a cui spesso si aggiungono stress, ansia, frustrazione. Il lavoro è ancora vocazione per trovare la propria pienezza?

La risposta non è scontata. Credo che molto dipenda dall’atteggiamento interiore, umano e di fede con cui si vive il lavoro nella sua concretezza. A volte ci sono condizioni di impiego che non sono di aiuto perché precarie o competitive. Ma è importante che i giovani non rinuncino alla propria originalità e creatività, che giochino sé stessi e non si appiattiscano. È poi determinante incontrare adulti che mostrino un modo bello, umano e fecondo di lavorare. Se questo non avviene, tutto è più difficile.

Alcuni giovani hanno definito «atrofizzati» tanti coetanei che sembrano non avere più desideri. Altri si trovano disillusi davanti a una «società della performance» che chiede a tutti di essere i migliori. Come tenere vivi i loro sogni?

Il desiderio è la molla e la sorgente della vita, una persona che non ha più desideri si spegne. Mantenerli in vita dipende in parte da un lavoro personale, che chiede di non ridurre né soffocare l’ampiezza dei sogni e delle domande che la realtà suscita in ciascuno. E poi è decisivo incontrare presenze umane, vive, che destano un’attrattiva per come si muovono nelle circostanze quotidiane, dal lavoro alle relazioni, anche nei contesti più drammatici. Ad esempio, durante la pandemia ci sono state presenze che hanno mostrato una capacità di bene in ogni circostanza. Questi incontri arricchiscono la vita.

I giovani hanno anche raccontato di vivere una frattura tra le generazioni, la paura di deludere gli adulti spesso li paralizza e molti si sentono giudicati. Come possono tornare a capirsi, giovani e adulti?

Una chiave è favorire esperienze reali di dialogo e ascolto, che arricchiscono entrambi. Questo deve interrogare le nostre comunità cristiane, perché si creino spazi per il confronto. C’è poi bisogno di ripartire dal cuore, da quel tessuto di esigenze comuni che permette di capirsi anche tra generazioni molto differenti. È ciò che facciamo quando leggiamo i testi di filosofi e poeti che sono vissuti in secoli lontani da noi: li cerchiamo per intercettare domande e situazioni che sono anche nostre. Oggi abbiamo testimoni senza tempo, capaci di incrociare il cuore degli adulti e dei ragazzi. Come papa Francesco, un uomo anziano capace di entrare in dialogo anche con i più giovani.

Lei come ha capito che diventare sacerdote era la sua vocazione?

L’incontro con l’avvenimento cristiano per me avvenne negli anni del liceo, soprattutto attraverso un professore di religione e alcune esperienze di Gioventù Studentesca. Si aggiunse lo stupore davanti a grandi testimoni come Giovanni Paolo II. Una chiamata interiore è sempre cresciuta in me in maniera pacata, lenta e progressiva. Avevo bisogno di tempi personali di preghiera e rimanevo affascinato da sacerdoti che erano contenti della loro scelta di vita. Tutte queste cose sono diventate una chiarezza, per cui poi ho deciso di entrare in seminario, ulteriore tempo di discernimento. Circostanze semplici che hanno fatto maturare una scelta che si è lentamente affermata nel cuore e con la vita.