Economia

I nodi. Il patto tra Italia e Cina ignora le insidie della Via della Seta

Pietro Saccò domenica 10 marzo 2019

Due camion cinesi pronti ad entrare nell'interporto di Xi'An (Ansa)

La scelta del governo di fare dell’Italia il primo grande Paese occidentale incluso nel progetto cinese della cosiddetta Nuova Via della Seta non reggerebbe a una semplice analisi costi-benefici. L’idea, confermata venerdì dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, è quella di firmare un memorandum d’intesa con la Cina in occasione della visita di Xi Jinping, atteso in Italia dal 21 al 23 marzo.

L’Italia affiancherebbe circa altri 70 Paesi che hanno aderito al piano Belt and Road Initiative( Bri), lanciato da Xi nel 2013: un enorme programma infrastrutturale che mira a mettere la Cina al centro di una rete di collegamenti stradali, marittimi e ferroviari per agevolare gli scambi commerciali con il resto dell’Asia, l’Africa e l’Europa. Per l’Italia l’interesse dei cinesi è soprattutto verso i porti di Venezia e Trieste. Il programma prevede massicci investimenti da parte dei cinesi, pronti a pagare totalmente il costo di alcuni progetti. Altri li finanziano a basso costo, con una strategia che ha già creato problemi di sovraindebitamento in diversi paesi, come il Pakistan, la Malesia e lo Sri Lanka, costretto a cedere a Pechino per un secolo il suo principale porto commerciale.

La Bri ha un malcelato obiettivo politico: rafforzare l’egemonia della Cina sull’area asiatica e ampliarne il potere in Africa e in Europa. Uno scenario preoccupante per chi è convinto della bontà del modello di società liberale e democratica, a cui si oppone la natura non democratica e illiberale della Cina. In questo senso sono purtroppo del tutto comprensibili gli allarmi degli Stati Uniti.

I difetti della concorrenza cinese

Anche se si ragiona solo sugli aspetti commerciali del progetto i conti non tornano. Lega e Cinque Stelle, come altri movimenti populisti stranieri, sembravano conoscere bene gli effetti collaterali del commercio internazionale. Prima del voto si sono schierati dalla parte delle "vittime della globalizzazione", quelli che hanno visto le aziende chiudere e i posti di lavoro svanire per effetto della concorrenza straniera. Ce ne sono anche in Italia, che pure con quasi 40 miliardi di euro di attivo commerciale è una potenza mondiale dell’export. È un dato di fatto che aprirsi al libero scambio porta vantaggi e svantaggi. Generalmente ci guadagnano i consumatori, che possono avere accesso a prodotti più economici, e le imprese più competitive, che trovano nuovi mercati di sbocco. Ci perdono le aziende più deboli, sfidate da nuovi concorrenti stranieri, e chi lavora per loro.

La determinazione antiglobalista dei partiti che ci governano pareva fortissima: la maggioranza non ha nemmeno intenzione di ratificare nemmeno il Ceta, l’accordo commerciale tra l’Unione Europea e il Canada che Confindustria ritiene positivo per le aziende italiane. I dubbi dell’esecutivo sulla bontà del libero scambio sono stati accantonati per andare incontro ai progetti di Xi. È paradossale, perché se c’è un Paese che con la sua politica commerciale sleale e aggressiva ha messo in difficoltà il resto del mondo quello è la Cina.

I "difetti" di Pechino, quelli che ad esempio gli hanno impedito di essere riconosciuta come “economia di mercato” nell’ambito degli accordi dell’Organizzazione mondiale del commercio, sono innumerevoli. Ha un modello economico in cui lo Stato continua a controllare tutti gli aspetti dell’economia e interviene sistematicamente per coprire le perdite delle grandi aziende che vanno in difficoltà. Questo consente alle imprese cinesi di fare dumping, cioè concorrenza in perdita, in molti settori economici, a partire da quello dell’acciaio. Un secondo enorme problema è quello dell’accesso al mercato cinese da parte delle aziende straniere: per stabilire una base in Cina devono allearsi con un’impresa locale, che a quel punto può avere accesso a brevetti, programmi, strategie (e, a un certo punto, usarli per fare concorrenza all’alleato).

Il piano Made in China 2025

C’è una strategia precisa, in tutto questo. Si chiama "Made in China 2025" ed è un altro programma del governo cinese che il nostro esecutivo sembra ignorare. È un piano di investimenti miliardari con cui la Cina vuole spostare le proprie aziende verso l’alto nella catena globale del valore: punta a farne i campioni mondiali in dieci settori redditizi e innovativi, compresi i macchinari e i dispositivi medici, comparti di forza del Made in Italy. Se il piano riuscisse, la Repubblica Popolare Cinese diventerebbe la terra dell’eccellenza industriale mondiale e farebbe concorrenza diretta a potenze industriali, come la Germania e l’Italia.

L’Europa e gli Stati Uniti, che hanno chiaro questo rischio, si stanno mobilitando per contrastare i piani di Xi. L’Italia, sulla spinta dell’attivismo del sottosegretario filo-cinese Michele Geraci, vuole trattare da sola con la Cina, ma parte da una posizione di debolezza. Già adesso i nostri scambi con Pechino sono sbilanciati a loro favore. La Cina è uno dei pochi Paesi con cui abbiamo una bilancia commerciale negativa: 13,2 miliardi di export contro 30,8 miliardi di import.

Lo spazio di mercato in Cina per le nostre aziende si ridurrà ulteriormente se – come sembra – nella trattativa con Washington per eliminare i dazi Pechino accetterà di aumentare significativamente le sue importazioni dagli Stati Uniti. In un contesto del genere, è facile sospettare in quale direzione dovrebbero andare i convogli tra Cina e Italia nella Nuova Via della Seta in cui ci stiamo avventurando.