Economia

Il grande spreco. Il Paese che non sfrutta il talento delle donne

Caterina Maconi sabato 6 maggio 2017

Ansa

Per le donne nell’economia restano «troppe barriere» alla partecipazione, ma anche differenze nei salari. La denuncia è arrivata ieri dal presidente della Federal Reserve Janet Yellen che, alla Brown University di New York si è dilungata in un discorso di 18 pagine sul ruolo delle donne nell’economia. Una loro maggiore partecipazione, ha spiegato Yellen, aiuterebbe sicuramente la crescita.

In Italia lavora poco più di una donna su due, il 55,2% nella fascia 15-64 anni. Siamo fanalino di coda in Europa, peggio di noi solo la Macedonia con il 50,8% e la Turchia con il 36,2%. Per fare un paragone con un Paese più virtuoso, basti pensare che in Germania lavorano il 76,3% delle donne. Nel nostro Paese il potenziale inespresso è dunque enorme e le barriere ancor più alte di quelle denunciate dal presidente della Banca centrale americana.

Secondo stime della Banca d’Italia, un aumento del tasso di partecipazione femminile al 60% nei prossimi 10 anni significherebbe quasi meccanicamente un aumento del Pil fino a 7 punti. Eppure sono 17,5 milioni le donne inattive e 2,8 milioni le disoccupate. Di queste la metà, ovvero 1,4 milioni, sono laureate. Significa che non lavorano in un Paese che ha investito sulla loro istruzione. Ma non basta: anche quando riescono a trovare un impiego le donne sono spesso inserite in dinamiche discriminatorie, con percorsi di carriera più lunghi, spesso accidentati, differenze retributive rispetto ai colleghi uomini, assenza di politiche familiari di supporto per conciliare la vita lavorativa e quella privata. Ma anche minor valorizzazione delle competenze. Eppure mettere le donne al centro delle strategie di crescita di un’azienda è fattore conclamato di crescita del business.

Le imprese a conduzione femminile hanno maggiore predisposizione verso leve strategiche importanti come internazionalizzazione, innovazione e marketing. Per esempio registrano più marchi internazionali: il 52% contro il 46% maschile.


Un rapporto del Peterson Institute for International Economics, centro studi americano, ha analizzato i risultati di quasi 22 mila aziende sparse in 91 nazioni, dimostrando che le compagnie dove almeno il 30% del consiglio d’amministrazione è “rosa” riescono ad aumentare i profitti del sei per cento all’anno, contro il tre di media. Anche il Fondo monetario ha realizzato un’indagine per capire se le società con più donne manager avessero risultati finanziari migliori, analizzando i bilanci di due milioni di società in Europa. Ebbene: semplicemente sostituire un uomo con una donna nelle direzioni o all’interno dei consigli di amministrazione porta una redditività maggiore compresa fra lo 0,08 e 0,13 per cento. Nonostante questo in Italia le realtà 'femminili' sono 1 milione e 300mila, con un peso che arriva a poco più di un quinto del totale. E a ben vedere, oltre a essere poche, sono anche in diminuzione. L’innovazione e la comunicazione sono i settori chiave in cui un manager donna è più capace.

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Dati di Unioncamere mostrano come la creatività femminile si esprima meglio in ambiti legati al made in Italy, dove le imprese femminili sono il 43% del totale nella confezione di articoli di abbigliamento e quasi il 30% delle industrie tessili. Proprio a partire da questo contesto, il gruppo Intesa Sanpaolo ha dato il via a un’iniziativa per promuovere la parità di genere, istituendo insieme alla Fondazione Marisa Bellisario il premio 'Women value company 2017', riservato alle piccole e medie imprese che si contraddistinguono per adottare scelte che incoraggiano l’imprenditorialità femminile. Sono 111 le realtà selezionate in tutta Italia, due di queste saranno proclamate vincitrici il prossimo giugno a Roma.