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Il caso. L'odissea della nave di Open Arms con 216 migranti a bordo

Nello Scavo sabato 17 marzo 2018

Un profugo in cattive condizioni di salute aiutato a sbarcare dalla nave di Proactiva Open Arms (Ansa/Proactiva Open Arms)

Sono arrivati in 216 nel porto di Pozzallo, a bordo della nave dell’ong spagnola "Proactiva Open Arms" che nel Canale di Sicilia aveva avuto dissidi prima con la guardia costiera libica, che rivendicando la propria competenza sull’area pretendeva di riavere i 216 migranti soccorsi dalla nave umanitaria, e poi con le autorità italiane che in un primo momento non avevano concesso l’ok allo sbarco nei porti nazionali.
In maggioranza uomini, sono 157 quelli soccorsi insieme a 31 donne e 28 minori. Per 6 di loro si è reso necessario il ricovero in ospedale: due donne in gravidanza, una con elevata coxalgia perché picchiata all’anca prima di imbarcarsi, un uomo con diverse ustioni agli arti inferiori e due uomini con forte astenia e disidratazione. Gli altri sono stati trasferiti nell’hotspot di Pozzallo per l’identificazione e il fotosegnalamento.

Appena sbarcati, a bordo della Open Arms sono saliti agenti di polizia che hanno condotto il comandante e il capomissione in commissariato per venire interrogati quali «persone informati dei fatti». Su di essi, al momento, non pende alcuna accusa. Gli interrogatori si sono protratti per tutto il giorno, anche perché i due membri dell’equipaggio non parlano italiano.

Secondo fonti delle autorità marittime italiane, la Open Arms una volta giunta in acque territoriali maltesi, dove ha trasbordato una donna e il suo bambino perché necessitavano di cure urgenti, non hanno chiesto a La Valletta (che come da prassi respinge ogni richiesta, ndr) di poter sbarcare lì migranti, dirigendosi quindi verso l’Italia. Un comportamento che ha irritato il governo italiano che a quel punto avrebbe preferito una richiesta formale - mai arrivata - dalle autorità di Madrid. Le condizioni meteo e quelle dei migranti hanno però suggerito di consentirne lo sbarco a Pozzallo.

Il nodo del contendere è la cosiddetta area Sar libica, cioè la zona di ricerca e soccorso di competenza di Tripoli. Fonti italiane sostengono che la Libia, che aveva dichiarato a luglio e poi ritirato a dicembre la presa in carico Sar, ha ripresentato la dichiarazione all’Organizzazione marittima internazionale (Imo). Ma dall’Imo non arrivano conferme. Nei mesi scorsi, come ha rivelato ieri sul portale di "Famiglia Cristiana" il giornalista Andrea Palladino, nel corso di un vertice era stata raccolta la posizione contraria a una Sar libica da parte degli operatori marittimi internazionali (le associazioni delle compagnie di navigazione e dei lavoratori portuali). Al contrario le autorità europee della missione navale di controllo delle frontiere Sud e l’Italia, avevano apertamente sostenuto l’affidamento delle operazioni di ricerca e soccorso alla Libia, nonostante le stesse autorità marittime italiane ammettano che Tripoli non possa essere riconosciuto come "porto sicuro" per i migranti quantomeno perché la Libia non ha mai firmato alcuna convezione sui Diritti dell’uomo e dei migranti.

Intanto dalle testimonianze raccolte nelle ultime settimane dai medici dell’associazione Medu in Sicilia arrivano conferme sullo stato in cui vengono "assistiti" i migranti in Libia. «Molte persone erano in stato di denutrizione, in alcuni casi estremamente grave», si legge in una nota dei sanitari che attribuiscono la responsabilità alle «inumane condizioni di detenzione».

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