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La storia. In Italia col gommone, curato a Genova. Ma Allah ha perso la battaglia

Daniela Fassini e Nello Scavo mercoledì 5 dicembre 2018

Il soccorso dei tre ragazzini libici, a marzo (Open Arms via twitter)

Non ce l’ha fatta il piccolo Allah. Aveva un ultimo desiderio: tornare in Libia dai genitori e dai fratelli. Così è stato. Ha trascorso gli ultimi due mesi con loro. Poi, finalmente vicino alla mamma, è morto.

Allah non sarebbe mai voluto partire per l’Italia. Ma quando i medici di Tripoli avevano confermato che non avrebbero potuto far più nulla per lui e la sua leucemia, un anno fa, il fratello maggiore non aveva perso tempo. Insieme al cugino e al fratellino malato si erano imbarcati da soli su un piccolo gommone per poter raggiungere l’Europa e trovare cure migliori per quel ragazzino di soli 14 anni, il più piccolo di sette fratelli. La guerra in Libia e le politiche migratorie europee non gli lasciavano alternative. Per provare a vivere, dovevano rischiare di morire.

La foto di Allah, il fratello maggiore e il cugino, a bordo del canotto alla deriva, salvati in piena notte in mezzo al mare dalla nave della Ong spagnola Open Arms, avevano fatto il giro dei media. Quei ragazzi soli che avevano sfidato le insidie del Mediterraneo, con l’unico desiderio di poter dare cure migliori, avevano commosso tutti. «Era molto buio, stavamo navigando nel Canale di Sicilia – ricorda Ani, volontaria dell’Ong spagnola che aveva coordinato il soccorso – poi a un certo punto abbiamo visto una lucina e ci siamo accorti che era una piccola imbarcazione». Il salvataggio è stato immediato. Subito il medico di bordo aveva capito il dramma di quel piccolo equipaggio. Giunto a Pozzallo il quattordicenne era poi stato trasferito al pronto soccorso dove i medici, vista la gravità della malattia, si erano subito messi in contatto con l’ospedale pediatrico Gaslini di Genova.

Una storia d’amore e di speranza, raccontata da Avvenire nel reportage pubblicato a maggio proprio dal nosocomio ligure (in quel caso avevamo protetto la privacy del piccolo libico chiamandolo Khaled, ndr). Le cure erano state impegnative, come aveva raccontato Carlo Dufour, il primario di ematologia che aveva preso a cuore il ragazzino per il quale il fratello e il cugino avevano messo in pericolo le proprie vite pur di consegnarlo a un vero ospedale. Una malattia difficile, la leucemia. Condizioni aggravate da una brutta ferita alla gamba. Un’infezione provocata da un germe dell’umido molto resistente, probabilmente contratto durante la traversata in mare. Un’avventura sfiancante, specie per un adolescente già debilitato e da un anno impossibilitato ad accedere a cure adeguate.

Allah aveva risposto bene alle terapie del Gaslini. Dopo i primi cicli di chemioterapia la leucemia sembrava scomparsa. Non quella brutta infezione che, in un corpo fragile e messo a dura prova, è risultata subito il grande ostacolo. Mentre Allah veniva sottoposto a diversi interventi in sala operatoria, il fratello maggiore non lo abbandonava mai. Ospitato in una foresteria dell’ospedale, accolto ed assistito dai volontari del reparto, trascorreva tutto il giorno accanto ad Allah. Sognavano di tornare a Tripoli, un giorno, dai genitori e dai loro cinque fratelli. Così è stato, ma non per il lieto fine.

«La mancata guarigione di quella ferita ha fatto emergere nuovamente la malattia, questa volta più aggressiva», racconta Concetta Micalizzi, il medico dell’équipe che segue tutti i protocolli di leucemia. «Ad un certo punto ci siamo accorti che non avremmo più potuto aiutare Allah – spiega Micalizzi – e ci sembrava giusto esaudire il suo ultimo desiderio».

L’ospedale si è attivato per far rientrare il piccolo paziente e il fratello a Tripoli, nella casa di famiglia. Non era facile. Agli inizi di settembre la Libia è tornata nuovamente nell’inferno della guerra civile e l’aeroporto internazionale è stato chiuso. Così il team medico del dottor Dufour decide di optare per un volo di linea, da Genova a Tunisi, e poi da lì tentare di raggiungere la Libia. Con un atto d’amore e coraggio, un medico e una infermiera genovesi, grazie all’ambasciatore italiano, hanno potuto proseguire il viaggio via terra, in ambulanza, fino a Tripoli.

«Allah era contento di essere tornato a casa. Ha continuato a fare le trasfusioni e la terapia di supporto che gli abbiamo fornito», raccontano dal Gaslini. «È assurdo che abbia dovuto prendere un gommone e non altri mezzi legali per venire in Europa a curarsi – insiste Dufour – perché avremmo potuto salvarlo. Oltre l’80% dei bambini guarisce solo con la chemioterapia e per le forme più resistenti c’è il trapianto».

Un rammarico che i sanitari e i soccorritori di Open Arms faticano a trattenere. Come se non bastasse le autorità libiche anziché premiare il coraggio e consolare il dolore del fratello maggiore, gli hanno ritirato il passaporto.