Incentivare la ricerca italiana a partire da giovani e dottorati
venerdì 29 marzo 2024

Il dottorato di ricerca è un titolo equivalente al PhD (Doctor of Philosophy) anglosassone che rappresenta in Italia il più alto titolo accademico, utile per accedere all’insegnamento universitario oppure alla ricerca. Richiede una laurea magistrale o specialistica e 3-5 anni di attività per acquisire le capacità di programmare ed eseguire ricerche in un determinato settore come, ad esempio, le scienze della vita, la matematica, la storia o altro. Il dottorato di ricerca si può ottenere anche trascorrendo una parte della formazione all’estero.

L’Italia è uno dei Paesi con il più basso livello di dottorati in ricerca. Ve ne sono 29.480 contro oltre 39.000 in Polonia, 90.000 in Spagna, 60.000 in Francia e ben 200.000 in Germania. I numeri sono impietosi per il nostro Paese anche se sono rapportati al numero di abitanti, al tasso di occupazione, al numero di dottorati su base annuale e, oltre tutto, sono in diminuzione con il tempo.

Occorre sottolineare che la creatività dei nostri ricercatori non è diversa per numero e qualità da quella dei ricercatori dei Paesi con numeri più elevati nella formazione d’eccellenza. Il nostro problema riguarda soprattutto la difficoltà di ottenere “masse” critiche di ricercatori per affrontare temi complessi e a a carattere multidisciplinare.

Dai dati viene spontanea una domanda: come mai abbiamo un così basso numero di dottorati di ricerca?

Anzitutto, occorre sottolineare che il governo italiano, da molti decenni, senza distinzione tra le diverse alternanze di maggioranza, ha sempre considerato la ricerca una spesa anziché un investimento che rende sul lungo termine, come documentato dal fatto che i Paesi che investono di più in ricerca hanno una economia più fiorente e un maggior numero di brevetti, che permettono loro di ottenere, commerciare ed esportare prodotti ad alto valore aggiunto. In generale, i politici non sono molto interessati a sostenere progetti e relative spese per strategie pluriennali.

Un’altra ragione riguarda la diminuzione del numero di giovani, che determina un basso numero di iscritti all’Università e, quindi, un basso numero di lauree, che sono alla base dell’accesso al dottorato. Il dottorato, tra l’altro, dura 3 anni ed è sostenuto da borse di studio relativamente ridotte per giovani già laureati: ad esempio, in molte Università le borse al netto oscillano da 1.200 a 1.500 euro mensili.

Abbiamo, così, una quota crescente di giovani laureati italiani che per ottenere il dottorato si reca all’estero. Infatti, in 5 anni gli “emigrati” sono aumentati da circa 9.000 a circa 12.000. Inoltre, la carenza di dottorati non viene compensata dall’apporto di stranieri, che rappresentano solo il 15 per cento, provenienti soprattutto da Paesi emergenti.

Anche le prospettive di lavoro non sono particolarmente incentivanti perché, a distanza di 5 anni dal conseguimento del titolo, l’occupazione è del 75 per cento per i dottori in ricerca e dell’87 per cento per i laureati.

Capire che cosa fare non è facile, perché occorre cambiare la cultura della ricerca, che significa migliorare le condizioni economiche per le borse di studio, ma anche per i ricercatori che non hanno stipendi adeguati. Ciò tuttavia non basta, perché è fondamentale avere più fondi per la ricerca. La differenza dell’investimento in ricerca fra Italia e Francia è di ben 22 miliardi di euro.

Non solo, ma la burocrazia esercita un peso insostenibile. Basti pensare che per ottenere l’approvazione di ogni progetto di ricerca che riguarda la sperimentazione animale si devono aspettare 6 mesi, e in aggiunta si deve pagare una tassa.

Il nostro Paese deve decidere se vuole continuare a permanere fra i Paesi più avanzati in termini economici e del sapere, perché senza ricerca e operatori della ricerca non si può sperare di avere alti tassi di sviluppo: la nostra produzione, in tutti i campi, verrà lentamente rimpiazzata dai Paesi a basso reddito con costi più bassi dei nostri del personale e dei servizi. Per questo non c’è tempo più da perdere.

Fondatore e Presidente, Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri Irccs

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