lunedì 23 ottobre 2023
La storia industriale del Mezzogiorno si è sviluppata lungo binari che hanno visto interi territori «sacrificati» in nome della produzione
Sud, il «prezzo» del lavoro: se a pagare sono territorio e salute

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Il cielo è un ammasso di nuvole livide. Dal suolo, non lontano dal mare, si alza una foresta di colonne: sono gli impianti industriali che quel cielo gravido sembrano sorreggere, quasi a scongiurarne la caduta. Benvenuti nel quadrilatero industriale siracusano, «sede di un gigantesco polo petrolchimico, il secondo in Europa dopo quello di Rotterdam». Un mostro a due facce – come svela nella sua indagine sul campo il giornalista Fabio Lo Verso affiancato dal fotoreporter Alberto Campi – che, se da un lato «produce circa il 37% del Pil della Sicilia», dall’altro ha aggredito un tratto delle coste più belle dell’isola, facendone «una terra fra le più inquinate d’Italia che si estende dalla città di Augusta al borgo di Melilli, da quello di Priolo Gargallo al capoluogo Siracusa».

Il mare colore veleno. Indagine su uno dei più grandi disastri ambientali del paese (Fazi, pag. 212, euro 18) è al tempo stesso una cartografia del presente industriale del sud d’Italia (e non solo) – segnato oggi da un progressivo declino – ma anche la fotografia di una dimensione nella quale presente, passato e futuro si intrecciano, si compenetrano, si scambiano di ruolo. Perché parlare dell’insediamento industriale siracusano non significa solo attardarsi su un presente sempre attraversato dal fantasma del disastro ambientale – quello che si è perpetuato segretamente e quello che minaccia di esplodere, in maniera altrettanto drammatica, in ogni momento – ma, anche, scoprire che qualsiasi scommessa sul futuro e sullo sviluppo di queste terre deve fare i conti con un passato che rischia di non passare: quello dell’inquinamento che ha sparso – scrive Lo Verso – «nell’ambiente i peggiori contaminanti industriali», dal benzene al biossido di zolfo fino ad arrivare ai metalli pesanti (mercurio, piombo, arsenico e cadmio).

Emblematico, di questo viluppo di progresso e morte che ha punteggiato la storia industriale del sud, è la storia – tragica e paradossale assieme – del campo di calcio di Augusta. Siamo nel 1976, la Montedison “regala” alla città uno stadio. Peccato che per ricoprire la superficie della struttura vengano usate «ceneri di pirite», altamente tossiche. Risultato? «Per lunghi anni, centinaia di sventurati calciatori si sono passati la palla correndo su un terreno pieno zeppo di rifiuti tossici». Il sipario cala negli anni Novanta: il campetto viene chiuso. E abbandonato. Un tragico baratto ha contrassegnato lo sviluppo industriale di questa porzione di sud: la salute “scambiata” con il lavoro. Lo testimonia la diffusione dei tumori, «un’incidenza ubiquitaria» che colpisce, in misura quasi identica, uomini e donne. Una prova «che i fattori di rischio si sono spostati dall’interno dei luoghi di lavoro verso l’esterno», dalle fabbriche alle case.

La storia dell’industrializzazione al sud non può non collocarsi in un ambito più ampio, quello nazionale. Una cornice percorsa da movimenti (e strappi) imperiosi. Il primo segue l’unificazione e vede il fragile sistema produttivo del sud sacrificato in nome del nuovo interesse nazionale. Secondo, il torrenziale movimento migratorio interno che smotta e, al tempo stesso, ridisegna il volto della giovane nazione e crea le premesse per il prepotente sviluppo nazionale. «Tra i due censimenti del 1951 e del 1971 si registra l’esodo di oltre quattro milioni di meridionali: poco meno di tre milioni dal Mezzogiorno continentale, oltre un milione dalla Sicilia» (Barbagallo 155). Terzo, l’industrializzazione delle regioni meridionali attraverso lo strumento della Cassa del Mezzogiorno, con tutti gli slanci e gli squilibri, le criticità che essa ha generato. A partire dalla più drammatica di tutte: nelle parole di Salvatore Romeo, «l’insopprimibile contraddizione tra la salute e il lavoro». Un intervento massiccio che, se da un lato ha consentito l’aggancio del Sud al resto del Paese, è stato anche viziato da un’impostazione che ne ha frenato la dinamica espansiva.

La rivoluzione industriale del mezzogiorno «non affonda le radici nel maturare di una realtà sociale, bensì è indotta prevalentemente dall’esterno. Invece di mettere in moto l’atteso processo moltiplicativo di diffusione, essa coincide con la crisi dell’industria e dell’imprenditoria locale. Fallita la prospettiva di uno sviluppo industriale autopropulsivo, si è fatto sempre più determinante il ruolo dei gruppi oligopolistici e soprattutto delle partecipazioni statali» (Dal Monte-Giannola 473). Fatto sta che, come ha notato Giulia Malavasi, tutti i maggiori gruppi chimici si istallarono nel meridione.

La fragilità del sistema produttivo del sud si specchia nella dinamica dell’occupazione e dei salari, “catturata” dall’ultimo Rapporto Svimez: «La quota di lavoro a termine nelle regioni del Sud supera nel 2022 anche quella della Spagna, caratterizzata storicamente da valori molto alti ma che ha messo in atto nel medesimo periodo politiche volte a ridurne l’utilizzo. Ulteriori indicazioni riguardo l’indebolimento qualitativo del mercato del lavoro italiano, accentuatosi dopo la lunga crisi del 2008-2013, provengono dalla diffusione del part time involontario in Italia. I lavoratori con part time «non per scelta» erano 1,3 milioni nel 2008, mentre nel 2022 sono quasi raddoppiati (2,6 milioni); nel Mezzogiorno sono passati da 490mila a 870 mila, raggiungendo una percentuale dell’80% del totale dei lavoratori a tempo parziale. Quale sviluppo allora per il sud? E quale sviluppo per il polo petrolchimico siciliano? Lo Verso non ha dubbi. Il primo, ineludibile, passo da compiere è il risanamento ambientale. Aggirare l’imbuto che si è rivelato troppo stretto, segnato dalla «macroscopica entità della contaminazione industriale» e dalla «microscopica opera di risanamento avviata». Senza la bonifica di quel territorio ferito, il lavoro rischia di restare una maledizione.

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