mercoledì 17 aprile 2024
Al Mart di Rovereto una mostra prova a fornire un’ampia lettura della produzione del Ventennio. Grandi autori e opere asservite raccontano un’epoca e le sue contraddizioni

Qualche smagliatura e caduta di tono c’è, ma la ricognizione è molto ampia con oltre quattrocento opere e forse non importava neppure sfornare una esposizione formalmente impeccabile della migliore arte italiana del Ventennio. Interessava piuttosto individuare la discontinuità e la dialettica tra le diverse (alcune sono altissime, altre meno e non tutte indispensabili) espressioni artistiche di quel periodo non raramente e a lungo “rimosse” per ragioni squisitamente ideologiche andando a definire un percorso contraddittorio quanto esaltante tra ansia di innovazione, di rivolta e di negazione di un illustre passato e, al contrario, di una intensa nostalgia per quel passato ammaliatore.

Fortunato Depero, 'Fascismo' 1925; ollezione privata

Fortunato Depero, "Fascismo" 1925; ollezione privata - Mart

Con Arte e fascismo, questo il titolo della mostra ospitata al Mart di Rovereto fino al primo settembre, ideata da Vittorio Sgarbi e curata da Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari, tra strappi e “ritorni” si compie così un cammino lungo il quale, in quegli anni, la cosa meno facile per un artista, come del resto per qualsiasi cittadino, è posizionarsi. Che si andasse “oltre il fascismo” o che ci si stesse dentro, il regime è una presenza più che mai consolidata con la quale ci si deve per forza confrontare. Nel mondo artistico le avanguardie hanno già giocato, o lo stanno facendo, le loro carte e a esse si addebita il caos post bellico; guardare all’estero è considerato antipatriottico; il “ritorno all’ordine” incoraggiato, ma chi vi aderisce viene poi anche etichettato come amico del regime. La strategia scelta dalla maggior parte degli artisti è quella della cautela e dell’inchino, sotto l’italianissimo motto “tengo famiglia”. Tant’è che nessuno fra i grandi, escluso Toscanini, si oppone palesemente.

Cagnaccio di San Pietro, 'Il randagio', 1932; collezione privata

Cagnaccio di San Pietro, "Il randagio", 1932; collezione privata - Mart

Nemmeno De Chirico che pure non ha mai avuto simpatia per il fascismo, e le serate a Roma, dice Moravia, si trascinano al Caffè Aragno contando le macchine che passano in via del Corso. Le premesse ci dicono che il primo decennio del secolo si presenta come un panorama culturale molto vivace nel quale le varie correnti d’avanguardia si esprimono in tutta Europa con un preciso imperativo di rottura con la tradizione e di ricerca di nuove forme di manifestazione artistica in consonanza con le rivoluzionarie scoperte scientifiche e tecnologiche che la nuova era propone. Una rapida analisi delle opere fa scoprire quanto il panorama fosse variegato. In Francia De Chirico nel 1911 dipinge visioni straniate, senza tempo, nelle quali tuttavia è evidente l’opposizione alle correnti d’avanguardia, e qualche anno dopo Picasso durante un viaggio in Italia ricompone linee e piani da far pensare a una rilettura di Ingres, mentre Severini, prima futurista e poi partecipe dell’esperienza cubista, in seguito dipinge opere terse e pacate e in Italia il futurista Carrà, dopo una stagione metafisica che lo condurrà a un’indagine sulla forma e a una «poetica delle cose ordinarie», realizza opere chiaramente indirizzate a una rilettura di Giotto e dei primitivi.

Mario Sironi, 'La Giustizia', 1936-1937; Museo d’arte moderna e contemporanea “Filippo de Pisis”, Ferrara

Mario Sironi, "La Giustizia", 1936-1937; Museo d’arte moderna e contemporanea “Filippo de Pisis”, Ferrara - Mart

Quindi si può affermare che gli stessi protagonisti delle rivoluzioni teoriche dell’inizio del secolo, verso la metà degli anni dieci, hanno proposto un rinnovamento che, pur tenendo conto delle esperienze dell’avanguardia, vissuta e teorizzata in prima persona, recuperasse in termini di analisi e di riscontro la tradizione classica. È attorno a questi orientamenti che nasce il Novecento (da cui la mostra prende avvio con opere di Dudreville, Marussig, Oppi, Funi, Bucci) creato da Margherita Sarfatti per la quale l’arte deve essere «moderna classicità» ovvero costruzione, solidità architettonica, plasticità. I corpi non devono esser mera superficie e dunque metafora dell’illusorietà, dell’apparenza.

Se l’Impressionismo ha colto la fuggevolezza dell’attimo e ha diviso il tempo in una sequenza di frammenti senza durata; se il Futurismo ha celebrato il dinamismo e dunque il divenire, il Novecento deve esaltare il volume, l’atemporalità, la fissità. Deve esprimere l’essere delle cose, deve restituire al reale la sua immobile sacralità, perché l’arte è «vita senza morte». Storicamente gli anni Trenta stanno tra la crisi economica del ’29 e lo scoppio della seconda guerra mondiale. In mezzo: nazismo, stalinismo, fascismo.

Mario Tozzi, 'Mattutino (Réverie matinale)', 1927; Museo del Novecento, Milano

Mario Tozzi, "Mattutino (Réverie matinale)", 1927; Museo del Novecento, Milano - Mart/Luca Carrà

Allora ecco che la mostra propone un’esauriente campionatura di busti di Mussolini anche in formato souvenir tipo Predappio. Anche l’arte ha il compito di produrlo e lo fa con affollate Quadriennali e Sindacali, Sabaudia e Littoria, ma insieme all’allineato Premio Cremona c’è anche lo sbarazzino Premio Bergamo e i libri di Montale, Ungaretti, Delfini, Landolfi, Palazzeschi, Gadda, il citato Moravia… averne oggi.

Girando per le sale si respira un po’ l’aria del periodo, alimentata anche dalle musichette dell’epoca trasmesse da vecchie radio dislocate lungo il percorso espositivo. Percorso che, dopo il focus sull’iconografia mussoliniana, grazie a sezioni tematiche, ricorrendo anche alle opere di artisti poco noti o dimenticati, esamina il rapporto tra fascismo e futurismo, l’educazione e la propaganda attraverso l’arte monumentale e murale, il vuoto e il nitore di piazze ed edifici di progettisti razionalisti. E si incrociano astrattismi superbi tutti rette e piani di Radice, melanconie romane di Mafai, ebollizioni di Guttuso, presenze attonite di Campigli, spigoli acuminati di Depero, pugili in riposo di Carrà, Muri ai pittori! del numero uno Sironi. E si arriva alla fine della visita che segna anche la fine della dittatura preannunciata dal busto in bronzo Dux di Adolfo Wildt picconato dai partigiani nei giorni della Liberazione.​

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